Trust di protezione e attività affidanti per l'amministrazione di sostegno


1 - Premessa
Il titolo sembra evocare una prospettiva applicativa del trust nel contesto e da parte di soggetti sottoposti alla misura di protezione dell'a. di s.
In verità non di prospettiva si tratta, ma di prendere atto di una realtà attuale, atteso che i casi di istituzione di trust da parte di soggetti sottoposti ad a. di s. sono numerosi (il riferimento, è, naturalmente, ai casi editi).
Concentrarsi esclusivamente su questa fattispecie potrebbe peraltro essere riduttivo, perchè altre esigenze iniziano a intravedersi, in particolare quella di individuare strumenti giuridici idonei a predisporre strumenti di tutela, prevalentemente patrimoniale, ma non solo, essendo i profili patrimoniali legati anche a quelli personali, per il tempo in cui il soggetto potrebbe divenire incapace. Nella parte finale del mio intervento accennerò quindi anche a questa fattispecie, ai problemi applicativi che essa determina e alle perplessità che suscita.
E' utile però, prima di iniziare a trattare l'argomento, sintetizzare, in poche parole, che cos'è il trust. A tal fine prendo a prestito la definizione della Convenzione de L'Aja del 1° luglio 1985, ratificata dall'Italia con la legge 364 del 1989 che, com'è noto, è lo strumento attraverso cui l'istituto, sia pure con tutte le perplessità che ancor oggi sussistono, ha trovato ingresso nell'ordinamento interno. Dice l'art. 2 della Conv. che per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente - con atto tra vivi o mortis causa - qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato.
Il trust, continua la norma, è caratterizzato dai seguenti elementi:
a) i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee;
b) i beni in trust sono intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee;
c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee.
Quindi, con riferimento all'ipotesi che ci stiamo prefigurando, il trust sarà istituito dal soggetto beneficiario dell'a. di s., prevederà il trasferimento dei beni a un soggetto terzo, il trustee, nell'interesse di un beneficiario, il quale, come subito vedremo, sarà lo stesso soggetto sottoposto ad a. di s.
Va inoltre precisato che tratteremo del trust c.d. interno, dandone per scontata la legittimità, intendendosi per tale, com’è noto, il trust che è fonte di un rapporto giuridico i cui “elementi significativi” (per tali dovendosi intendere sia - com’è pacifico - il luogo in cui i beni sono ubicati e quello in cui lo scopo del trust deve essere perseguito, sia - come parrebbe affermare la tesi prevalente - la cittadinanza e residenza del disponente e dei beneficiari) sono localizzati all’interno del nostro ordinamento e i cui unici elementi di internazionalità sono quindi costituiti: a) indefettibilmente, dalla legge regolatrice del trust (essendo quest’ultima – per definizione – una legge straniera); b) eventualmente, anche dal luogo di amministrazione del trust e da quello di residenza abituale del trustee.
Fatta questa premessa, iniziamo a chiederci, in modo più dettagliato, quali sono le esigenze che il trust può contribuire – vedremo entro che limiti – a risolvere.
I soggetti capaci ma consapevoli dell'eventualità di non essere più in grado di autodeterminarsi a causa di una malattia invalidante, pongono all'operatore giuridico professionale due esigenze:
1) i limiti entro cui egli intende essere sottoposto a terapie mediche, che è tema attinente la persona, e, quindi, costituisce oggetto della discussione riguardante l'ammissibilità de iure condito e de iure condendo del testamento biologico, ovvero, come forse è più corretto dire, delle direttive anticipate di trattamento;
2) il desiderio che il proprio patrimonio continui a essere gestito anche in tale periodo in maniera corretta ed efficiente, e che su di esso possano con sicurezza continuare a fare affidamento per le proprie esigenze di vita sia egli stesso che i propri familiari.
Più difficile, invece, spiegare perchè un soggetto già sottoposto a una misura di protezione quale l'a. di s. ritiene di dover istituire un trust.
Può ipotizzarsi che il ricorso al trust derivi da una certa insofferenza del ceto professionale rispetto alle misure di protezione predisposte dal nostro ordinamento. L'istituto dell'amministrazione di sostegno, sorto ormai oltre 4 anni fa con il proposito di superare i vecchi ed incrostati istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione, peraltro mai formalmente aboliti, al di là di alcuni sporadici usi "virtuosi", sembra in effetti essersi appiattito sui vecchi istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione e, con particolare riguardo al compimento di atti di straordinaria amministrazione del patrimonio, ne replica presupposti e modalità applicative, fondate, com'è noto, sull'autorizzazione "atto per atto".
Non escluderei, tuttavia, che il ricorso al trust – ma è una considerazione generale, non limitata al settore che sto trattando -, possa discendere dalla voglia di seguire la moda del momento, con la conseguenza che non sempre la scelta dello strumento appare improntata a quei criteri di avvedutezza e prudenza cui dovrebbe attenersi l’attività professionale.
L'analisi dei provvedimenti giurisprudenziali autorizzativi dell'istituzione di trusts da parte di persone priva di autonomia, o, per dir meglio, dei ricorsi presentati, visto che, come spesso accade, tali provvedimenti sono privi di motivazione, sembra mostrare, almeno prevalentemente, che le ragioni poste alla base del ricorso risiedono da un lato nell'esigenza di colmare vuoti di tutela che le ordinarie norme che disciplinano le misure di protezione presentano, fra cui il prodursi dell'effetto di separazione patrimoniale; dall'altro nell'esigenza di utilizzare uno strumento maggiormente flessibile.
Occorre tuttavia, con onestà intellettuale, ammettere che tali ragioni non sembrano del tutto decisive, soprattutto in considerazione dei problemi applicativi posti dall'istituto, che nascono, evidentemente, dalla necessità di coordinarlo con le norme dell'ordinamento interno. In base alla lettera (a) del primo paragrafo dell’art.15 della Convenzione de L’Aja, infatti, un trust non può derogare alle norme imperative previste dalle regole di conflitto del foro in tema di «protezione di minori e di incapaci».
Mi limito a segnalare due questioni:
(a) se il trust sia uno strumento la cui efficienza, in termini di valore aggiunto, rispetto agli istituti di protezione previsti dall'ordinamento italiano, sia tale da consentirne un utilizzo "alternativo" rispetto a essi;
(b) come si coordini la disciplina del trust (che è regolato da una legge straniera), con le norme in tema di amministrazione e controllo dei beni appartenenti a incapaci, quando tali beni vengono da costoro "conferiti" in trust; in particolare se ed entro quali limiti sia ammissibile un controllo del giudice sull'attività del trustee.

2 – Il trust istituito dalla persona priva di autonomia
Il sistema delle misure di protezione previsto dall'ordinamento italiano, com'è noto, prevede la necessità dell'intervento autorizzativo del giudice per il compimento di atti che l'ordinamento ritiene rilevanti per il patrimonio del soggetto protetto. Il patrimonio continua ad appartenere a costui ed è solo la sua amministrazione che viene affidata a terzi (secondo il modello dell'amministrazione esclusiva o concorrente).
La differenza rispetto al trust è evidente: nel trust infatti i beni non solo vengono amministrati dal trustee ma gli sono anche trasferiti in proprietà (ma, com'è noto, si tratta di proprietà nell'interesse altrui).
Il primo di questi temi, legato alla valutazione circa la maggiore efficienza del trust rispetto alle ordinarie misure di protezione previste dall'ordinamento italiano, concerne l'ammissibilità del trust c.d. autodestinato, in cui il disponente riveste la qualifica di unico beneficiario del trust.
A tale questione si può rispondere in adottando una prospettiva "tradizionale", distinguendo cioè tra causa ed effetto: un trust del quale l’unico beneficiario sia l’incapace stesso (trust che sarà destinato, normalmente, a durare fino alla sua morte ovvero fino all’eventuale cessazione della sua incapacità), appare difficile abbia una "causa" che possa utilmente distinguersi dall’effetto tipico di qualunque trust, cioè dall’attuazione di un meccanismo di separazione patrimoniale.
Non parrebbe possibile obiettare che, in tali casi, la causa del negozio è data dalla protezione del patrimonio dell’incapace, poiché quest’ultimo è già protetto dagli istituti della rappresentanza o assistenza legale: se è vero, infatti, che in questi casi il trust appresta un meccanismo di protezione ulteriore (dato appunto dalla separazione patrimoniale), appare dubbio che l’istituzione di un trust possa trovare giustificazione nel mero intento di creare detta separazione, sì che non può escludersi la nullità di un trust del genere.
Tra l'altro è seriamente dubbio che in questi casi si determini una separazione piena del patrimonio. I creditori del beneficiario, infatti, pur non potendo agire in surrogatoria per aggredire immediatamente i beni in trust, nella misura in cui la legge regolatrice scelta non consenta di chiedere la cessazione anticipata del trust da parte di beneficiari incapaci, possono comunque aggredire immediatamente la posizione beneficiaria vested dell'incapace e agire in surrogatoria successivamente. Si pensi per esempio al trust istituito da un minore. Una volta raggiunta la maggiore età questi può chiedere la cessazione anticipata del trust; e se nel frattempo i suoi creditori hanno aggredito la posizione beneficiaria potranno agire in surrogatoria. O, ancora, al caso in cui il beneficiario sia un soggetto sottoposto ad a. di s. e venga a cessare l'incapacità oppure il trust cessi per effetto della morte del beneficiario stesso. In tali casi i creditori che abbiano aggredito la posizione beneficiaria potranno agire egualmente, surrogandosi al soggetto già incapace o ai suoi eredi.
Si può adottare invece una prospettiva "funzionale", esaltando, in un certo senso, la circostanza che l'art. 2 della Conv., nell'indicare quali "caratteristiche" del trust la separazione e la destinazione dei beni, non implicherebbe che la prima debba costituirne l'effetto e la seconda la causa, potendo la prima ben penetrare nello scopo che s'intende perseguire con il trust. Sarebbe vietato in altri termini solo il trust in cui lo scopo si identifichi con la separazione.
Il trust istituito dal beneficiario dell'a. di s. viene allora a inserirsi in un contesto permeato certamente dalla meritevolezza degli interessi perseguiti, come anche si ricava dall'analisi dell'art. 2645-ter, c.c., che tra i beneficiari della destinazione patrimoniale indica espressamente le persone con disabilità, ciò che implica, appunto, la rispondenza di per sè della cura e della protezione di tali persone a un interesse meritevole di tutela. Tale trust, in altri termini, potrebbe essere visto come misura alternativa agli ordinari istituti di protezione laddove esso si giustifichi in termini di adeguatezza e proporzionalità rispetto alle esigenze del soggetto da proteggere.
Ammessa, come mi pare si debba, la possibilità di istituire un siffatto trust, occorre porsi un ulteriore problema. La disciplina del trust va infatti coordinata con le norme in tema di amministrazione e controllo dei beni appartenenti al soggetto protetto, quando tali beni vengono da costui "conferiti" in trust. Il nostro sistema si basa infatti, come già detto, su un sistema di autorizzazioni giudiziali di singoli atti, che il giudice può concedere avuto riguardo alla necessità o utilità evidente rispetto alla persona priva di autonomia.
In sostanza occorre valutare se il trust istituito dal beneficiario dell'a. di s. non sia uno strumento elusivo delle norme dell'ordinamento interno che, in mancanza del trust, sono volte a responsabilizzare l'attività degli amministratori legali (a. di s., tutore, curatore). A seguito del trust, infatti, il disponente/beneficiario dell'a. di s. si spoglia dei beni, che diventano di proprietà del trustee e ciò dovrebbe condurre alla conclusione che costui, essendo appunto proprietario dei beni, sia esentato dal richiedere qualsivoglia autorizzazione per amministrare i beni stessi.
A tal fine diviene molto rilevante il ruolo del giudice, che dovrà valutare, autorizzando l'istituzione del trust, se esso assicuri un sistema di protezione la cui adeguatezza ed efficacia sia quantomeno pari rispetto a quella assicurata dalla misura di protezione prevista dall'ordinamento interno. Si tratta di un ruolo molto delicato, perchè nel momento in cui il giudice autorizza l'istituzione del trust sembrerebbe definitivamente spogliarsi dei poteri di controllo dell'attività del trustee di talchè il trust stesso diverrebbe una vera e propria misura alternativa, che si aggiunge alle misure di protezione tradizionali, tanto che potrebbe finanche sostenersi che il giudice possa imporre l'istituzione del trust qualora, appunto, lo ritenga più adeguato al caso di specie.
Occorre allora chiedersi se l'autorizzazione a istituire il trust, concessa dal giudice a un soggetto sottoposto ad a. di s. o ad altra misura di protezione o a un minore di età, sia davvero idonea a disattivare in modo definitivo il sistema legale delle autorizzazioni, per questa via rispettandosi il disposto dell'art. 15 lett. a), Conv., oppure se il giudice possa imporre, quale condizione per la stipula dell'atto istitutivo, l'inserimento di una clausola che riservi a sè il controllo sull'attività svolta dal trustee nell'interesse del beneficiario ovvero se, a prescindere da clausole inserite nell'atto, la necessità dell'autorizzazione sia principio immanente al sistema, non sostituibile nemmeno a seguito dell'autorizzazione a istituire il trust.
Si tratta di problemi molto complicati, la cui soluzione non è affrontabile adeguatamente in questa sede per evidenti ragioni di tempo. Mi limiterò pertanto a brevi considerazioni.
Pare da escludere, in primo luogo, che il problema si possa risolvere aderendo alla tesi che vuole la materia regolata dalla legge straniera. Poiché il trust è regolato da una legge straniera, si afferma, è a questa che occorrerebbe riferirsi per vedere se il trustee si debba o meno munire di autorizzazioni per il compimento degli atti, per cui se la legge nulla dispone non sarà necessario alcun vaglio da parte del giudice italiano. Tale posizione sembra però non tenere in considerazione l'art. 15 Conv. che, come già osservato, fa salve le norme inderogabili dell'ordinamento interno in materia di protezione di minori e incapaci.
Si potrebbe sostenere, allora, che, pur in presenza dell'art. 15 Conv., l'autorizzazione non sia richiesta in quanto per effetto dell'istituzione del trust il proprietario dei beni è divenuto il trustee, e che il soggetto da proteggere, disponente del trust, è solo beneficiario dei redditi del trust. Poichè il giudice ha già valutato il trust come strumento adeguato e proporzionato alla tutela degli interessi personali e patrimoniali del disponente/beneficiario, non sembrerebbe proporzionato richiedere ulteriori controlli sulla gestione dei beni da parte del trustee, il quale pertanto potrebbe compiere liberamente, cioè senza chiedere autorizzazione alcuna, gli atti di straordinaria amministrazione aventi a oggetto i beni in trust. In effetti, se il trustee dovesse richiedere l'autorizzazione, si determinerebbe una situazione analoga a quella preesistente, dalla quale l'esistenza del trust differirebbe per il solo fatto che i beni non apparterrebbero più al soggetto da proteggere ma al trustee. Verrebbe meno, probabilmente, la stessa utilità del ricorso al trust, il cui contenuto, alla fin fine, si esaurirebbe in null'altro che la separazione patrimoniale.
Potrebbe anche sostenersi che il giudice, nel provvedimento con cui autorizza l'istituzione del trust, anzichè indicare genericamente gli atti di straordinaria amministrazione, possa indicare specifici atti per il cui compimento il trustee debba chiedere la sua autorizzazione. Tale potere del giudice troverebbe la sua fonte nella stessa norma che gli riserva il potere di concedere o meno l'autorizzazione avuto riguardo agli interessi del soggetto da proteggere, cioè l'art. 375 c.c., richiamato dall'art. 411, c. 1, c.c. L'argomento secondo cui ciò non sarebbe possibile perchè il giudice, con l'imporre l'autorizzazione, verrebbe a incidere su beni di un terzo (il trustee) e non del soggetto da proteggere, non pare tenere nella giusta considerazione il fatto che siffatto trust non è un trust istituito da terzi a vantaggio del soggetto da proteggere, nel qual caso, in effetti, l'esistenza di tale potere potrebbe essere messa in (serio) dubbio, ma è un trust istituito dallo stesso soggetto da proteggere in favore di sè stesso, affidando al trustee beni propri. Anche questa tesi, però, che in sostanza è un'applicazione meno rigorosa di quella secondo cui il potere autorizzativo del giudice per il compimento di ulteriori atti di amministrazione si esaurirebbe al momento in cui egli concede l'autorizzazione a istituire il trust, rischia di essere un argomento a sostegno della tesi che reputa tali trust se non invalidi, quantomeno inutili, in quanto esauriscono la loro funzione nel solo effetto di separazione patrimoniale.
Ammettendo, allora, che affinchè i trust in questione possano essere strumenti davvero alternativi alle ordinarie misure di protezione il giudice, autorizzata l'istituzione del trust, esaurisca i propri poteri di intervento, occorre chiedersi se, invece, tale intervento possa essere attivato dagli interessati, per esempio dallo stesso trustee. Si tratterebbe di riconoscere agli interessati un potere simmetrico a quello previsto da norme interne, quali l'art. 169 c.c. e l'art. 356 c.c., che, a determinate condizioni, consentono invece di disattivare l'intervento giudiziale.
Secondo il diritto inglese, ad esempio, il trustee può rivolgersi al giudice per ottenere direttive in ordine a questioni che siano insorte nell’amministrazione del trust e, laddove vi si sia conformato, sarà certo che non potrà essergli contestata alcuna violazione delle sue obbligazioni.
A tale problema si possono dare diverse risposte.
Una prima risposta consiste nel ritenere tale clausola non ammessa, sia perché vi osta il principio di tipicità dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, ma anche (e soprattutto) perché una forma analoga d’intervento del giudice (che si concreta nell’emissione non già di una decisione, ma di un parere indirizzato al soggetto istante, titolare di un ufficio gestorio di diritto privato) non parrebbe trovare riscontro nel nostro ordinamento.
Né pare possibile ovviare al problema prevedendo la competenza di un giudice straniero ad emanare tali direttive, poiché la competenza per territorio, in materia di volontaria giurisdizione, è inderogabile.
Un percorso alternativo consiste nell'affermare che essendo questo aspetto del trust disciplinato, secondo la Convenzione, dalla legge regolatrice del trust, l’avvenuta ratifica di essa ha determinato l’introduzione in Italia di nuove ipotesi di provvedimenti di volontaria giurisdizione, scardinando così, in un certo senso, il dogma del principio di tipicità dei provvedimenti di volontaria giurisdizione.
D'altro canto una volta ammesso che il trust (interno o straniero che sia) debba essere riconosciuto nell'ordinamento italiano e quindi in tale ordinamento possa produrre i propri effetti, deve anche ammettersi che possano essere attuate le funzioni giudiziarie necessarie per il funzionamento dell'istituto. Altrimenti si correrebbe il rischio di compromettere la stessa effettività del trust.
L'accoglimento della tesi consentirebbe in primo luogo che il giudice, nell'autorizzare una persona priva di autonomia all'istituzione di un trust, ne condizioni l'istituzione stessa alla previsione di poteri di sorveglianza e controllo in capo a lui. In secondo luogo che l'autonomia privata possa autonomamente attivare il controllo del giudice, applicando in via estensiva le norme previste per il controllo degli atti dei titolari di un ufficio di diritto privato (tale è, anche secondo la nostra Corte di Cassazione, l'ufficio di trustee). Il giudice, in tal caso, emanerebbe il provvedimento applicando al caso di specie la legge regolatrice del trust.
Diverso è, invece, il caso in cui l'atto di straordinaria amministrazione da compiere abbia a oggetto i diritti del beneficiario aventi fonte nel trust. Tali atti, ritengo, potranno essere compiuti solo previa autorizzazione del giudice.
Ad esempio, se il trust attribuisce al beneficiario incapace il diritto di percepire ogni mese delle rendite del trust fund dovrà essere conseguita l’autorizzazione a effettuare le dette riscossioni.
In proposito non pare convincente la tesi secondo cui in questo caso si tratterebbe di riscossione di redditi e quindi non occorrerebbe alcuna autorizzazione (che la legge impone solo per la riscossione di capitali), perché i redditi conseguiti dal trust sono, appunto, redditi se ci poniamo dal lato del trust ma capitali se ci poniamo dal punto di vista del beneficiario.

3 – La nomina di beneficiari ulteriori
Si è già detto che una delle esigenze della persona priva di autonomia è quella di desiderare che il proprio patrimonio continui a essere gestito in maniera corretta ed efficiente, e che su di esso possano con sicurezza continuare a fare affidamento per le proprie esigenze di vita sia egli stesso che i propri familiari.
Questa esigenza pone problemi tecnici suscettibili di diversa soluzione in rapporto alla qualificazione dell'atto che si intende stipulare.
Finora si è infatti discusso del trust c.d. autodestinato, in cui il soggetto protetto è l'unico beneficiario.
L'interesse di costui di affidare singoli beni o anche tutto il suo patrimonio a un trustee affinchè lo gestisca a vantaggio oltre che di sè stesso anche dei suoi familiari, pone invece il serio problema della designazione dei beneficiari ulteriori.
L'analisi deve muovere dall'individuazione delle ragioni giustificative dell'istituzione del trust, in breve della sua causa. Esso infatti può essere qualificato, come il più delle volte accade, come trust liberale, cioè volto alla realizzazione di una liberalità in favore dei beneficiari ulteriori.
In questo caso occorre considerare che il trust liberale realizza una liberalità indiretta in favore dei beneficiari ulteriori e che alle liberalità indirette si applicano, per opinione dominante (salvo un autore), le norme dettate in tema di capacità a donare per le donazioni dirette.
In estrema sintesi, tenuto conto del più volte ricordato art. 15, paragrafo primo, lettera a), della Convenzione, è da ritenere che una persona priva di autonomia potrà istituire un trust del genere soltanto se il medesimo rientri in una delle (normalmente assai limitate) ipotesi di donazione a costui consentite dall’ordinamento.
Al di fuori di dette ipotesi, pertanto, unico beneficiario del trust parrebbe poter essere lo stesso incapace-disponente: nel frequente caso in cui il trust debba aver fine alla morte di costui, pertanto, non potranno esser previsti beneficiari residuali (sì da lasciare operare un resulting trust) ovvero, a tutto concedere, l’atto istitutivo dovrà limitarsi a prevedere che, alla fine del trust, i beni spetteranno agli eredi o legatari del disponente (in tal modo altro non facendo che imprimere ai beni il medesimo indirizzo previsto dal resulting trust).
Con particolare riguardo all'ipotesi di soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno, costui potrà istituire un trust liberale inter vivos, così designando beneficiari ulteriori rispetto a se stesso, solo nell' ipotesi di “rappresentanza concorrente” dell’a. di s.
Nel caso, invece, in cui all’a. di s. siano stati dal giudice impressi contenuti tali che la stessa risulta aver privato il soggetto, in tutto o anche solo in parte, della capacità, un trust del genere parrebbe istituibile solo nelle limitate ipotesi in cui è ammessa la donazione da parte del soggetto incapace, e con l’adozione delle opportune forme abilitative.
Nell'ipotesi in cui, invece, il trust non abbia natura liberale, possono prospettarsi soluzioni diverse, che scaturiscono dall'analisi della fattispecie concreta.
Per esempio, l'esclusione della natura liberale potrebbe discendere – come da taluno sostenuto - dal fatto che l'attribuzione in favore di un beneficiario ulteriore ha natura “solutoria”, in quanto funzionale al suo mantenimento.
Tale conclusione parrebbe condivisibile, però, solo nel caso in cui le prestazioni del trustee consistano effettivamente nel mantenimento e abbiano, altresì, inizio e fine mentre è in vita il disponente.
Secondo alcuni autori, invece, un trust nel quale le prestazioni, ad esempio in favore di un figlio, si protraggano anche nel periodo successivo alla morte del genitore disponente conserverebbe pur sempre la sua natura solutoria, sì che se ne dovrebbe escludere la natura liberale: ciò - si argomenta in particolare – sulla base di una “intepretazione evolutiva” delle norme in materia di alimenti alla luce degli artt. 2 e 30 Cost.
Detta tesi, tuttavia, appare difficilmente condivisibile alla luce dell’attuale diritto positivo, in quanto:
a) l’obbligo di mantenimento sussiste a carico del genitore-disponente solo finché quest’ultimo sia in vita, sì che dopo la sua morte appare difficile escludere la natura liberale dell’attribuzione;
b) se è vero che esistono norme che dichiarano esenti da collazione e da riduzione le “spese di mantenimento”, e da esse si ricava la natura non liberale di attribuzioni del genere, non è men vero che le spese cui tali norme si riferiscono non si limitano ad aver fonte in un atto inter vivos, ma sono state altresì materialmente effettuate dal de cuius durante la propria vita.
Ne discende che, laddove il trust prevedesse attribuzioni in favore di un figlio le quali, pur se non eccedenti la misura di quanto necessita per il mantenimento del beneficiario, siano destinate a protrarsi anche dopo la morte del disponente, sarebbe difficile escluderne la natura liberale e, con essa, l’invalidità della correlata donazione indiretta effettuata dal disponente incapace.
Altra tesi, infine, afferma che i trust istituiti da incapaci possono avere una causa bensì gratuita, ma diversa da quella liberale. Si parla in proposito di "causa familiare", che consentirebbe, pertanto, la designazione di un beneficiario ulteriore, nella misura in cui il trust si configuri alla stessa stregua di quegli atti attributivi in ambito familiare dettati da spinte affettive che non consentirebbero di inquadrarli all'interno della rigida classificazione tra causa donativa e causa solutoria.
E' un tentativo non nuovo, atteso che taluni autori hanno cercato di valutare in quest'ottica, ad esempio, il fondo patrimoniale, per escludere che esso possa essere aggredito con l'azione revocatoria ordinaria o fallimentare o le attribuzioni patrimoniali tra coniugi in sede di crisi coniugale.
L'idea di individuare in siffatti trust una causa diversa da quella familiare è certamente apprezzabile e degna di approfondimento, fero restando che la causa familiare non deve essere una sorta di "cavallo di Troia" attraverso cui violare norme imperative. L'individuazione, nel caso concreto della causa gratuita ma non liberale dovrà pertanto essere svolta con avvedutezza e prudenza. Un criterio idoneo potrebbe essere costituito, ad esempio, dal principio di proporzionalità rispetto al patrimonio del disponente, utilizzato in materia fallimentare per stabilire se certi atti gratuiti siano o meno pregiudizievoli rispetto ai creditori. E' difficile, per esempio, non considerare liberale un trust istituito da un incapace in favore dei propri figli laddove abbia a oggetto dieci appartamenti, salvo che si ritenga che la causa familiare accolga al suo interno anche la pianificazione successoria attraverso trust, operazione che mi pare alquanto azzardata.
E la stessa dottrina che propone tale soluzione ammette che se è vero che l'interesse familiare potrebbe escludere l'esistenza della donazione, non è men vero che il limite oltre il quale scatta la donazione dipende dalle circostanze del caso concreto.
La stessa giurisprudenza, in un caso recente (Trib. Cassino, 8 gennaio 2009), avente a oggetto proprio un trust, ha respinto la difesa del trust fondata, appunto, sulla sua qualificazione come atto gratuito non liberale, in quanto finalizzato ad adempiere un obbligo morale e destinato a sopperire alle esigenze della famiglia, revocandolo ai sensi dell’art. 2901 c.c.
In definitiva non può darsi una soluzione univoca ma occorre valutare la singola fattispecie per escludere la sussistenza della causa liberale ed affermare la conseguente legittimità della nomina del beneficiario ulteriore.

4 – Un segnale giurisprudenziale: il provvedimento del tribunale di Rimini del 21 agosto 2010
Come già segnalato, gran parte dei provvedimenti giudiziali che hanno autorizzato l'istituzione di trust da parte di beneficiario di a. di s. sono poco o nulla motivati.
Un segnale giurisprudenziale proviene invece da un provvedimento del tribunale di Rimini del 21 agosto 2010 (in Trusts, 2010, 618), che si pone in controtendenza rispetto a quelli fin qui emanati.
Ovviamente non è possibile dire se si tratta di un provvedimento che inaugura un nuovo filone giurisprudenziale, ma la motivazione, sia pure stringata, sembra porre un serio limite all'utilizzabilità del trust da parte di soggetti beneficiari di a. di s. e, in generale, da parte di incapaci.
Questo provvedimento si pone a valle di una vicenda che inizia con la richiesta di autorizzazione al g.t. da parte dell’a. di s. di una persona totalmente incapace per l’istituzione di un trust. Il g.t. autorizzava l’istituzione del trust con apporto della somma di 10.000 euro. Successivamente l’a. di s. chiedeva al tribunale, competente ai sensi dell’art. 747 c.p.c., di essere autorizzato ad apportare al trust beni immobili pervenuti per successione al beneficiario dell’a. di s.
Il g.t. esprime parere favorevole «stante la segregazione del patrimonio del beneficiario»; sembra quindi ritenere un “valore aggiunto” l’effetto di separazione patrimoniale.
Il p.m. invece esprime parere negativo, in quanto «gli scopi indicati nel ricorso a favore di M.E. sono raggiungibili anche con l’a. di s., senza necessità di trasferire la proprietà dei beni»; sembra quindi aderire alla tesi sopra esposta circa la superfluità del ricorso al trust che vede l’incapace quale unico beneficiario dello stesso.
Entrambe le affermazioni, però, non sono motivate. Il g.t., oltre a impropriamente riferirsi alla segregazione del patrimonio del beneficiario, dimenticando che, a seguito del trasferimento al trustee, tale patrimonio non apparterrà più al beneficiario, non chiarisce affatto i motivi per cui la separazione risponderebbe agli interessi del disponente/beneficiario; simmetricamente, il p.m., non chiarisce i motivi per cui l'a. di s. consentirebbe di raggiungere gli stessi scopi indicati nel ricorso.
Il tribunale rigetta il ricorso fondando la decisione su due disposizioni contenute nell’atto istitutivo, ritenute entrambe illegittime.
La prima disposizione è contenuta nell'art. 12 dell'atto istitutivo (il tribunale erroneamente cita l'art. 10, che pone in verità altri e diversi problemi), il quale stabilisce che il trustee ha i poteri del proprietario, fatta eccezione per alcuni atti di straordinaria amministrazione, che possono essere compiuti solo con il consenso del guardiano del trust.
Il tribunale afferma che, poiché il trustee, per il compimento di tali atti non deve chiedere alcuna autorizzazione, nè al giudice tutelare nè al tribunale stesso, le relative clausole «[non sono conformi] alle inderogabili disposizioni di legge in materia di tutela delle persone incapaci, ovvero delle persone che si trovino nella impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi [= sottoposti ad a. di s., n.d.a.], in quanto volte a sottrarre ai competenti organi giurisdizionali il controllo sulle effettive condizioni della persona beneficiaria di amministrazione di sostegno (in particolare sulla qualità e natura dell’assistenza che gli viene prestata in caso di aggravamento delle sue condizioni di salute) nonché sulla gestione patrimoniale dei beni in trust e sul compimento dei principali atti di straordinaria amministrazione».
Questa affermazione non pare però tenere in alcuna considerazione il dibattito dottrinale – sopra sommariamente sintetizzato - relativo alla necessità o meno per il trustee di richiedere le autorizzazioni giudiziali per il compimento di atti di straordinaria amministrazione dei beni in trust affidatigli da o in favore di un soggetto incapace o sottoposto ad a. di s.
La seconda disposizione (trattasi dell'art. 9 dell'atto istitutivo mentre il tribunale cita erroneamente l'art. 4) prevede che beneficiari finali del trust siano i figli del disponente ovvero le persone nominate dal disponente medesimo con testamento o con atto autentico nel corso della durata del trust ovvero le persone che, con le medesime forme, siano nominate da altro soggetto cui il disponente abbia attribuito il relativo potere con atto autentico.
Il tribunale ritiene che la designazione di beneficiari ovvero delle persone cui sono destinati i beni che residuano al momento della cessazione del trust a mezzo di semplici scritture private autenticate contrasti con i principi dell'ordinamento in materia di tutela della libera volontà negli atti gratuiti e mortis causa.
Tale parte del provvedimento è criticabile, se non nella conclusione cui giunge, probabilmente condivisibile alla luce di quanto finora affermato, quantomeno in punto di motivazione, redatta in modo alquanto sbrigativo.
Valgano le seguenti, sintetiche, osservazioni.
In primo luogo l'equazione atto autentico=scrittura privata autenticata non pare conivisibile, trattandosi, più probabilmente, di una sinèddoche per ricomprendervi anche l'atto pubblico. Nè è chiaro il rapporto esistente tra principio della personalità della volizione liberale e forma dell'atto. Una volta ammesso che la clausola viola il principio, infatti, la forma dell'atto parrebbe essere irrilevante.
In secondo luogo manca l'analisi dell'atto istitutivo di trust in punto di individuazione della causa, secondo le alternative che sopra ho cercato di prefigurare (liberale, onerosa, familiare per chi l'ammette). Il tribunale sembra sì rinvenire nella previsione di beneficiari ulteriori una qualificazione dell'atto come liberale, ma solo implicitamente, senza dare conto del percorso argomentativo che lo conduce a tale conclusione.
Il tribunale, infine, conclude affermando di condividere il parere del p.m., il quale però aveva solo ritenuto che «gli scopi indicati nel ricorso a favore di M.E. sono raggiungibili anche con l’a. di s., senza necessità di trasferire la proprietà dei beni», senza nulla obiettare in merito alle clausole del trust, tantomeno in merito a quelle ritenute dal tribunale rilevanti per la propria decisione.
In altri termini, il tribunale fonda la decisione su basi esclusivamente tecniche, senza domandarsi per quale motivo, appunto, «gli scopi indicati nel ricorso a favore di M.E. sono raggiungibili anche con l’a. di s., senza necessità di trasferire la proprietà dei beni», che, invece, era il thema demonstrandum.

5 - Il trust in previsione della propria incapacità
Ultima questione da trattare concerne il trust istituito in previsione della propria incapacità.
L'idea è di ricorrere al trust stabilendo in anticipo che – per il caso che sopraggiunga una situazione di incapacità – il patrimonio sia preso in gestione da un soggetto di fiducia dotato di idonee competenze (= il trustee), che lo amministri secondo i criteri e le modalità stabiliti dal disponente, continuando a destinarlo per le finalità e a beneficio dei soggetti cui esso è stato sempre destinato dal suo titolare.
Tale trust avrebbe le seguenti caratteristiche: sarebbe revocabile, avrebbe inizio dal giorno in cui la situazione di incapacità è attestata da un collegio medico a tal fine nominato (si tratterebbe quindi di un trust sottoposto a condizione sospensiva e termine iniziale), e avrebbe a oggetto il patrimonio del disponente esistente al momento dell'attestazione dell'incapacità. Beneficiario di tale trust è il disponente, con varianti in punto di individuazione di beneficiari ulteriori (con i problemi già segnalati). Il trust ha termine con la morte del disponente.
Un trust siffatto desta talune perplessità, cui accennerò brevemente.
Quanto alla clausola di revocabilità, non è in discussione la sua ammissibilità, essendo essa prevista, salvo casi specifici, dalle leggi regolatrici dell’istituto e conforme alle norme del nostro ordinamento, quanto la considerazione che da un lato l’art. 2, paragrafo primo, della Convenzione stabilisce che affinché possa parlarsi di trust occorre che i beni siano stati «posti sotto il controllo» del trustee (e che, pertanto, il disponente abbia perduto tale controllo); dall’altro lato l’art. 2, ultimo paragrafo, prevede che «il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà…non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust».
Dal combinato disposto di queste norme si evince pertanto che, se è lecito al disponente attribuirsi diritti e/o poteri da esercitare in relazione al trust da egli stesso istituito, tale fenomeno non può spingersi fino ad un punto tale che, nel caso concreto, possa ritenersi che egli non ha affatto perso il controllo sui beni in trust.
Si entra così nella delicata e sfuggente tematica – che va risolta caso per caso e non può essere qui approfondita - relativa all’individuazione del discrimine fra controllo lecito e controllo illecito del disponente sul trust.
In estrema sintesi, laddove nel caso concreto possa ritenersi che il disponente eserciti un illecito controllo sul trust, quest’ultimo corre il rischio di essere riqualificato in termini di mero mandato o, addirittura, di esser dichiarato nullo per simulazione, così in ambo i casi venendosi a vanificare l’originario intento negoziale del disponente.
Potrebbe sostenersi che tale potere di revoca si estingua (implicitamente) nel momento in cui si avvererà la condizione e che quindi in tale momento il controllo del trustee sui beni sarà pieno. Tuttavia occorre chiedersi se, in mancanza di espressa previsione, sia immaginabile che il rappresentante legale dell’incapace possa chiedere al giudice l’autorizzazione a esercitare il potere di revoca ovvero sia ammissibile una clausola che colleghi all’accertamento della situazione di incapacità il venir meno del potere di revoca.
Altra questione riguarda la clausola relativa all'accertamento dell'incapacità, convenzionalmente attribuito a un collegio medico, che potrebbe ritenersi in contrasto con principi generali dell'ordinamento. Il nostro sistema prevede infatti l'accertamento dell'incapacità e, comunque, dell'impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi sempre attraverso la mediazione del giudice.
Quanto all'individuazione dell'oggetto del trust, nella fattispecie esso verrebbe individuato per relationem al patrimonio esistente al momento dell'accertamento della sopravvenuta incapacità.
Questa clausola deve fare i conti con le norme in tema di determinazione dell'oggetto del contratto, applicabili anche agli atti unilaterali ex art. 1324 c.c. (qualora si ritenga, ma la questione è discussa, che il trust sia un atto unilaterale e non un contratto).
Il dubbio è che l'oggetto del trust sia indeterminabile e quindi la clausola sia invalida, in quanto l'individuazione dell'oggetto del trust è, in ultima analisi, rimessa alla mera volontà del disponente.
Potrebbe sostenersi, tuttavia, che nel caso di specie non siano riproducibili le opinioni dottrinali che escludono la determinazione unilaterale del contenuto del contratto qualora ciò possa alterare arbitrariamente la posizione della controparte. Ciò in primo luogo perché il trust in questione è stipulato nell’esclusivo interesse del disponente e quindi non vi è alcuna controparte da tutelare.
In secondo luogo perché nella fattispecie la condizione non è meramente potestativa, poiché il trasferimento al trustee altera la composizione patrimoniale del disponente e quindi non può dirsi che la determinazione dell’oggetto del trust, che dipenderà dalle scelte di amministrazione del patrimonio compiute dal disponente fin quando il trust non produrrà i suoi effetti siano per lui indifferenti.
Il probema si complica con riferimento ai beni immobili, non potendosi conciliare la "futurità" dei beni con la necessità del rispetto delle formalità richieste dalla legge a pena di nullità per il trasferimento di essi a terzi.
Potrebbe ritenersi che in tal caso il trasferimento al trustee sia assimilabile al trasferimento di cose determinate solo nel genere, e che l’atto di individuazione risolva il problema. Tuttavia la riconducibilità del trasferimento al trustee di un siffatto trust al trasferimento di cosa generica non è corretto, perchè altro è dire che oggetto del trust è uno dei cinque villini che costruirò a Perugia (in relazione ai quali le menzioni saranno certo possibili e doverose); altro è dire che oggetto del trust saranno non solo i beni immobili esistenti al momento della sua istituzione, ma anche tutti i beni immobili che verranno in ipotesi acquistati in futuro dal disponente, in relazione ai quali nessuna menzione è possibile al momento della stipula dell’atto traslativo al trustee (sia pure a termine e sotto condizione).
Ulteriore criticità nasce dal fatto che, qualora il trust preveda beneficiari ulteriori e sia qualificabile come liberale, verrebbe violato il divieto di donazione di beni futuri (ammettendo che la norma dell'art. 771 c.c. si applichi anche alle liberalità indirette).
Infine, quanto all’amministrazione dei beni trasferiti in pendenza della condizione, se si ritiene di aderire all’idea secondo cui il trasferimento al trustee di un siffatto trust è sotto condizione sospensiva e a termine iniziale, e l’evento condizionante definisce anche l’estensione della prestazione, ne dovrebbe conseguire la disponibilità dei beni da parte del disponente fino a quando la condizione si verifica. Occorre però chiedersi anzitutto se tale riserva di amministrazione sia ammissibile, atteso che i beni, sia pure sotto condizione, sono di proprietà di un terzo e inoltre, ammesso che tale potere sia esercitabile, come esso si concili con la tutela dei terzi acquirenti e, in particolare, cosa accade se un bene viene trasferito a terzi e successivamente la condizione si verifica.
In conclusione un trust siffatto presenta seri problemi di attuabilità ed è forse opportuno rinviarne l'istituzione al momento dell'accertamento della situazione di incapacità, previa applicazione della misura di protezione prevista dall'ordinamento italiano e concessione dell'autorizzazione da parte del giudice.
Diversi sono i casi in cui il disponente intenda istituire un trust in cui gli effetti traslativi siano sempre sottoposti alla condizione sospensiva dell'accertamento dell'incapacità, avente a oggetto tutto o parte del suo attuale patrimonio e contenente la riserva in capo al disponente di disporre dei beni fino a quando egli diverrà incapace o sarà comunque impossibilitato a provvedere ai propri interessi.
Tutti questi casi sono accomunati da una caratteristica: il disponente, capace al momento dell'istituzione del trust, potrebbe non divenire mai incapace e per tale ragione intende riservarsi il potere di disporre dei beni, che potrebbe essere legato al sopravvenire di uno stato di bisogno che prescinde da una situazione di incapacità.
Il trust potrebbe prevedere quale beneficiario soltanto lo stesso disponente oppure prevedere anche beneficiari ulteriori (clausola in questo caso ammissibile, trattandosi di trust istituito da soggetto pienamente capace). Il disponente, inoltre, potrebbe istituire il trust a beneficio di un incapace, per l'ipotesi in cui egli stesso (= il disponente) divenga incapace e non possa più occuparsi di costui. Tale trust potrebbe inoltre prevedere la nomina dell'incapace quale soggetto da assistere, eventualmente dello stesso disponente quale ulteriore soggetto da assistere nel caso divenisse incapace e, alternativamente, la cessazione al momento della morte di entrambi, con ritorno dei beni in trust al disponente e, quindi, ai suoi eredi legittimi o testamentari, ovvero la loro devoluzione a un beneficiario ulteriore).
Occorre distinguere le varie fattispecie.
1 – Trust che prevede quale unico beneficiario il disponente stesso.
Questo trust, in primo luogo, è un trust il cui beneficiario è capace e definitivamente individuato, per cui di esso se ne può chiedere l'immediata cessazione, anche da parte dei creditori in via surrogatoria (quindi dal punto di vista della protezione del patrimonio serve a poco).
Quanto alla clausola che consente al disponente di disporre dei beni in trust fin quando il trust non produca effetto, essa pare legittima, traducendosi nella risertva in capo al disponente della facoltà di recesso, totale o parziale.
2 - Trust che prevede quale beneficiario il disponente stesso ma prevede anche beneficiari ulteriori.
In questo caso, pocihè il trust è quasi certamente apprezzabile come liberalità in favore dei beneficiari ulteriori, si pone il problema della legittimità della clausola sia che essa venga qualificata come condizione risolutiva meramente potestativa sia che venga qualificata come recesso. Il trasferimento al trustee sarebbe quindi sottoposto a due condizioni, quella sospensiva, costituita dall'accertamento dell'incapacità del disponente e quella risolutiva apposta al trasferimento dei singoli beni, costituita dall'esercizio del potere di disposizione da parte del disponente capace ovvero a una condizione sospensiva cui accede una facoltà di recesso, totale o parziale.
Ferma restando la delicatezza e complessità di redazione dell'atto, la clausola appare legittima, in entrambe le configurazioni proposte, sia perchè la donazione è soggetta alle regole generali in tema di contratto, cioè - nel caso di specie - all’art. 1355 c.c., che vieta soltanto la condizione sospensiva meramente potestativa e all'art. 1373 c.c., che consente il recesso convenzionale; sia perchè l’ammissibilità si evince dall’art. 790 c.c., in quanto la donazione con riserva di disporre di parte dei beni donati altro non è che una donazione sottoposta – per una porzione del suo oggetto - ad una condizione risolutiva meramente potestativa.
Questa impostazione, d’altro canto, è stata accolta anche da un lontano (e, a quanto consta, unico) precedente della Suprema Corte (del 1970), che posta di fronte a una donazione revocabile dal donante ad nutum, premesso che una siffatta liberalità “sotto il codice civile del 1865 (e, secondo taluni, anche secondo il codice vigente) era ritenuta di nessuna efficacia giuridica perché la donazione definita nell’art. 1150” del previgente codice “era caratterizzata dalla irrevocabilità”, conclude affermando che si tratta di liberalità non incompatibile con il negozio di donazione.
3 - Trust che prevede l'incapace quale soggetto da assistere, eventualmente lo stesso disponente quale ulteriore soggetto da assistere nel caso divenisse incapace e, alternativamente, la cessazione al momento della morte di entrambi, con ritorno dei beni in trust al disponente e, quindi ai suoi eredi legittimi o testamentari, ovvero la loro devoluzione a un beneficiario ulteriore.
In questo caso la clausola è da ritenersi legittima per le stesse ragioni sopra esposte in relazione al caso 2.

Formulari clausole contrattuali

Trust autodichiarato a beneficio di disabili

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