Il notaio e il trust: dall’indagine della volontà delle parti alla stesura dell’atto


Testo della relazione illustrata al Convegno di Ostia del 3 ottobre 2012 "Trust interni ed esteri: caratteristiche operative e possibili profili di criticità"

1 - L'approccio del notaio al trust
Le questioni che il notaio deve affrontare in sede di stipula di un atto istitutivo di trust sono molto rilevanti e in questa sede verranno affrontate con riferimento esclusivo al trust c.d. interno, perchè è questa la figura della quale i notai italiani prevalentemente si occupano. I trust qualificabili come "esteri" o "stranieri" vengono molto raramente stipulati in Italia, hanno ben altre finalità e rispetto a essi il compito del notaio si atteggia in modo diverso, come si vedrà nel prosieguo.
La redazione di un atto istitutivo di trust, afferma James Kessler nella prefazione al suo celebre formulario “Drafting Trusts and Will Trusts” richiede conoscenze complesse e trasversali, che abbracciano, oltre, ovviamente, alle leggi in materia di trust, anche le materie della proprietà, delle successioni, della famiglia, del diritto commerciale, del diritto tributario. In sostanza, quasi l’intero diritto privato. Non solo. Esperienze recenti in materia di trust hanno condotto gli operatori a occuparsi anche di profili di diritto amministrativo e degli enti locali.
L’esame della prassi italiana in materia di trust mostra chiaramente come esso sia un istituto poliedrico, non completamente riducibile entro schemi precostituiti. Non esiste quindi “il” trust ma tanti trust per quante sono le fattispecie da regolare tramite il suo utilizzo.
Il contenuto dell’atto istitutivo di trust, che si sostanzia nella redazione del “programma” che il disponente intende realizzare tramite la sua istituzione, deve quindi tenere in debito conto, e analizzare, tutti gli interessi in gioco, ciò che implica anche una capacità di comprensione e di accurata indagine della volontà del disponente finalizzata a dare il massimo possibile di certezza alle situazioni giuridiche che nascono a seguito dell’istituzione del trust.
La flessibilità propria del trust non impedisce comunque l’esposizione di alcune linee-guida da seguire nella redazione dell’atto istitutivo.
Occorre sempre tenere presente che i problemi di adattamento dell’istituto nell’ordinamento italiano sono molteplici, molti di essi non ancora adeguatamente approfonditi, e il compito dell’operatore giuridico che intende strutturare un’operazione utilizzando il trust è molto delicato, soprattutto alla luce del fatto che occorre utilizzare una legge straniera, la cui interpretazione, trattandosi di ordinamenti di common law, si ricava non dai manuali bensì dall’esame dei precedenti, non semplici da individuare (anche se i mezzi informatici ormai consentono qualsiasi tipo di ricerca).
Sotto molti profili il trust presenta un’intuibile superiorità competitiva rispetto ad altri istituti a noi più familiari e ciò discende dalla garanzia offerta ai beneficiari e al disponente che le obbligazioni assunte dal trustee saranno puntualmente eseguite, perché i beni trasferiti in trust non possono confondersi con il suo patrimonio personale ma debbono costituire una massa distinta avente una propria destinazione particolare, in modo da rendersi insensibili alle vicende personali del loro stesso titolare e diventare così protagonisti di risultati programmatori agevolmente proiettabili lungo il lato cronologico.
Ma questa superiorità va verificata di volta in volta, con riguardo alla concreta fattispecie, alla luce del livello di certezza giuridica che tramite l’utilizzazione del trust si può conseguire.
Non esistono, naturalmente, formule magiche, che possano risolvere i problemi di approccio a questa materia, ma è evidente che se il notaio vuole assumere un ruolo importante non può che farlo in conformità al suo essere foro privilegiato di produzione di strumenti giuridici dotati di certezza. Sarebbe pertanto erroneo assumere un ruolo di totale distacco, limitandosi, in materia di trust, a svolgere il ruolo di mero certificatore, soprattutto in considerazione della complessità e delicatezza dell’esame della legge straniera e dei suoi rapporti con la legge italiana.
L’art. 15 Conv. nel far salve le norme imperative dell’ordinamento interno impone al redattore dell’atto e quindi al notaio, approfondite indagini aventi ad oggetto norme che disciplinano istituti del diritto civile italiano che dall’istituzione di un trust potrebbero essere violate. Ma si tratta di un tema che non può essere affrontato in questa sede e su cui rimando alla letteratura in materia.

2 - Distinzione tra negozio istitutivo e negozio traslativo; la "esecuzione" del trust
Fatta questa breve premessa, l’analisi della struttura dell’atto istitutivo di trust presuppone avere ben chiaro il rapporto intercorrente tra esso e l’atto dispositivo dei beni in favore del trustee.
Si tratta infatti di atti chiaramente distinguibili sul piano strutturale, sebbene nella prassi essi spesso si trovino unificati sotto il profilo documentale (per i motivi che dirò), e quindi tale distinzione si perde proprio sul piano pratico.
La distinzione tra atto istitutivo e atto dispositivo è fatta propria anche dalla Convenzione de L’Aja, il cui art. 4 espressamente stabilisce che essa “non si applica a questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici, in virtù dei quali determinati beni sono trasferiti al trustee”.
Questa norma trova la propria origine appunto nella distinzione, all’interno della composita fattispecie costitutiva di un trust, del negozio istitutivo e del negozio dispositivo (il quale trasferisce il diritto dal disponente al trustee ovvero, nel caso di trust autodichiarato, determina la nascita del vincolo di destinazione proprio del trust in capo a beni che sono e restano nella titolarità del disponente).
Scopo dell’art. 4 è proprio quello di rendere estraneo all’ambito applicativo della Convenzione ogni profilo di validità, sia formale che sostanziale, del negozio dispositivo: in tale ottica, quindi, il profilo della validità formale e sostanziale di detto negozio sarà disciplinato non già dalla legge regolatrice del trust, ma dalle norme di diritto internazionale privato proprie dei singoli Stati.
L’esame dei rapporti intercorrenti tra questi due “negozi” è importante in quanto tra le obiezioni all’ammissibilità del trust interno nell’ordinamento italiano è stata avanzata proprio quella della astrattezza causale dell’atto dispositivo dei beni in favore del trustee, non ritenendosi condivisibile, da alcuni autori, la tesi della configurabilità dei negozi traslativi atipici – tale va considerato l’atto di trasferimento dal disponente al trustee - purchè sorretti da una causa lecita.
In realtà il rapporto tra atto istitutivo di trust e atto dispositivo in favore del trustee va ricostruito in termini di unitarietà, e pertanto l’atto attributivo dei beni al trustee non può mai essere ritenuto astratto.
E’ facile constatare infatti che tale atto ha un effetto attributivo di per sé neutro dal punto di vista causale e la sua causa deve rinvenirsi nel programma contenuto nell’atto istitutivo di trust, cui l’attribuzione stessa è funzionale.
Pertanto, come ha osservato autorevole dottrina la causa del trasferimento dei beni al trustee è … l’attuazione dello scopo del trust e non si tratta di rinvenire una causa esterna.
Se è vero che esiste una causa unitaria che caratterizza la vicenda che trae origine dall’istituzione del trust ne consegue che sotto il profilo causale il trust non ammette una rigida separazione tra atto istitutivo e atto attributivo in quanto si tratta in realtà, come si evince proprio dall’art. 2 Conv., di un rapporto giuridico che può essere anche realizzato attraverso atti separati ma comunque inscindibili sotto il profilo causale.
Ovviamente, vi saranno poi gli atti "esecutivi" del trust, cioè le operazioni che il trueee dovrà compiere per attuare il programma stabilito dal disponente nell'atto istitutivo. Si potrà trattare di operazioni attive o passive, di atti di acquisto o di alienazione, di investimenti, pagamenti e quant'altro sia previsto dall'atto istitutivo. In relazione a tali casi il notaio dovrà verificare, sulla base dell'atto istitutivo, la legittimazione a disporre (in senso lato) del trustee. Questo tema verrà approfondito più avanti.

3 - La "causa" del trust e l'indagine sulle ragioni alla base dell'atto istitutivo; cenni ai problemi dell'adeguatezza dell'apporto e della residualità; causa del trust e mera separazione patrimoniale
Quanto osservato nel precedente paragrafo serve a porre l’attenzione, per quanto concerne i criteri redazionali, anzitutto sul fatto che poiché l’atto istitutivo di trust è - almeno per il nostro ordinamento -, un atto a contenuto atipico e con causa variabile (che potrà essere liberale, solutoria, di gestione o di garanzia, a titolo oneroso, etc.), da esso dovrà emergere la sua causa e ciò in modo particolare nei trust liberali, a differenza di quelli che trovano la loro giustificazione razionale nel rapporto sinallagmatico, nella causa associativa o comunque in altri rapporti caratterizzati da onerosità.
E’ quindi estremamente opportuno che negli atti istitutivi di trust interno siano sempre esplicitate le ragioni per le quali si istituisce il trust e le finalità che con lo stesso si vogliono perseguire, al fine di verificare se per quella specifica fattispecie siano state osservate le norme di salvaguardia e, in sostanza, non si sia “abusato” dello strumento del trust per realizzare un risultato che il nostro ordinamento vieta.
Va però rilevato che il richiamo all’atipicità del contenuto dell’atto istitutivo del trust non implica la necessità di una verifica della meritevolezza degli interessi perseguiti. Ciò in quanto la flessibilità del trust non modifica un dato di fondo, che è degno di particolare considerazione con riferimento ai c.d. trust liberali.
Il dato di fondo è che il trust a favore di beneficiari è apprezzabile, nella sostanza, come una donazione destinata a proiettarsi nell'arco del tempo, fino al compimento del termine del trust. Dunque il trust arricchisce i beneficiari e come donazione non pone un problema di meritevolezza degli interessi che il disponente intende perseguire mediante l'istituzione di esso.
L’arricchimento di un soggetto (il beneficiario) viene infatti realizzato dal disponente mediante un meccanismo indiretto, prevedente la creazione di un ufficio di diritto privato (quello del trustee) il titolare del quale (titolare, altresì, del patrimonio separato costituente la dotazione del trust) dovrà far pervenire al beneficiario i vantaggi patrimoniali che l’atto istitutivo prevede.
In ogni caso l'atteggiamento deve essere più prudente rispetto a figure contrattuali atipiche che i privati hanno la facoltà di stipulare in applicazione dell'art. 1322 c.c. Ciò in quanto mentre nel caso dei contratti atipici meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c. si parte da uno schema tipico cui si aggiunge un quid pluris e quindi essi sono in un certo senso più rassicuranti, il trust è istituto che nasce in un altro ordinamento e si forma e sviluppa in altre e diverse esperienze giuridiche. C'è quindi più diffidenza rispetto al trust, soprattutto in ragione del fatto che l'effetto principale di esso è costituito dalla separazione patrimoniale e del conseguente pregiudizio che esso può apportare alle ragioni dei creditori.
Sempre dal punto di vista del notaio, una questione che in passato era stata posta e che è ritornata in auge negli ultimi tempi in occasione di una vicenda giudiziaria, concerne il trust quale istituto residuale. Il privato, in altri termini, può utilizzare liberamente tale istituto o deve vagliare l'utilità di altre strutture con portata effettuale analoga? II notaio deve, prima di stipulare un trust, indagare e verificare se gli stessi risultati possono essere ottenuti tramite altri istituti o strumenti giuridici?
Esistono in effetti talune posizioni secondo cui appunto il trust sarebbe uno strumento residuale, utilizzabile solo in mancanza di strumenti interni idonei a raggiungere il medesimo obiettivo. In presenza di tali strumenti, aggiunge un autore, il ricorso al trust dovrebbe ritenersi non ammissibile.
Questo tema è stato oggetto di un recente provvedimento giudiziario, emesso dal Tribunale di Urbino. Alcune osservazioni. In primo luogo la residualità non pare essere una categoria o un concetto che serve da limite all'autonomia privata (il concetto di residualità esiste invece nel c.p.c., in materia cautelare; es. l'art. 700 c.p.c. è applicabile in via residuale); in secondo luogo, parlare di "inammissibilità" non pare essere del tutto corretto da un punto di vista giuridico. L'ordinamento conosce infatti altre categorie giuridiche, quali la nullità, l'annullabilità o l'inefficacia. A seguire tale tesi, pertanto, il trust, più che inammissibile, dovrebbe ritenersi nullo.
Ancora, il ragionamento non sembra tener conto di quanto detto prima in tema di causa in concreto, perchè è evidente che il giudizio sulla residualità, ammesso che si possa ragionare in tali termini, non potrà certo essere fatto in astratto bensì appunto in concreto, verificando quali sono i concreti interessi che attraverso il trust il privato intende realizzare. Se ciò è vero, e non mi pare dubitabile, allora si tratta di un falso problema perchè è evidente che tutti i trust svolgono funzioni che difficilmente possono essere perseguite tramite istituti tipici. Giusto per fare un esempio, visto che parliamo di famiglia e patrimonio familiare, pensiamo al rapporto esistente tra i trust e il patto di famiglia, il quale, almeno secondo l'opinione prevalente, presuppone un accordo tra i paciscenti, ciò che il trust invece non presuppone. Se il disponente volesse trasferire la partecipazione di controllo al figlio preferito e gli altri legittimari non fossero d'accordo non potrebbe, secondo l'opinione prevalente, stipulare il patto di famiglia. Potrebbe però stipulare un trust, se non anche una donazione diretta. Per tacere del fatto che la giurisprudenza pacificamente ammette le figure del negozio indiretto e del negozio fiduciario. Se si considerasse vigente il c.d. principio della residualità allora tutti i negozi indiretti non sarebbero validi, ciò che nessuno si è mai sognato di sostenere. Stesso discorso per il negozio fiduciario.
Inoltre, ammesso che si possa parlare di nullità del trust per violazione del c.d. principio della residualità, che tipo di nullità sarebbe? Non certo una nullità testuale. Forse potrebbe parlarsi di nullità virtuale ex art. 1418? Ad es. un trust la cui causa concreta - a dispetto di quanto indicato nell'atto stesso - fosse quella di avvantaggiare un proprio figlio da parte del disponente così ledendo la legittima di altri figli potrebbe essere considerato nullo? C'è chi ha risposto affermativamente, ritenendo che siffatto atto violi norme che sono di ordine pubblico. Mi pare, quest'ultima, conseguenza abnorme, sia perchè avverso gli atti lesivi della legittima l'azione proponibile è l'azione di riduzione, che presuppone invece la validità dell'atto, sia perchè quand'anche la ragione giustificativa del trust fosse quella di avvantaggiare un figlio a discapito di altri il trust ben andrebbe apprezzato quale strumento volto a realizzare una liberalità indiretta, i cui effetti e disciplina risultano dall'art. 809 c.c. In un caso simile non si potrebbe certo parlare di mancanza di causa bensì di diversità della causa.
Mi pare quindi che si possa considerare il trust come istituto concorrenziale rispetto ad altri istituti interni, fermo restando, naturalmente, che il giudizio sull'idoneità del trust alla realizzazione degli interessi perseguiti andrà sempre fatto, ripeto, in concreto e non in astratto. Esistono certamente, infatti, trust "buoni" e trust "cattivi" o "falsi" trust.
Un ulteriore questione che coinvolge il tema della causa concreta del trust riguarda la separazione patrimoniale, che, come detto, è effetto caratteristico del trust.
Il tema è se un trust che abbia come unica ragione giustificativa la separazione patrimoniale sia o meno valido.
Questo problema si pone con particolare riguardo ai trust liberali istituiti da incapaci, anch'essi rientranti nel più ampio genus dei trust familiari. Tali trusts di regola prevedono quale unico beneficiario l'incapace stesso e la ragione discende dal fatto che, trattandosi di trust liberali, la nomina di beneficiari ulteriori da parte del disponente incapace sembra urtare contro i principi in tema di capacità di donare, ritenuti applicabili anche alle liberalità indirette.
A tale problema si può rispondere adottando la prospettiva "tradizionale", distinguendo appunto tra causa ed effetto: in un trust del quale l’unico beneficiario sia l’incapace stesso (trust che sarà destinato, normalmente, a durare fino alla sua morte ovvero fino all’eventuale cessazione della sua incapacità), appare dubbio rinvenire una "causa" che possa utilmente distinguersi dall’effetto tipico di qualunque trust, cioè l’attuazione di un meccanismo di separazione patrimoniale.
Né parrebbe possibile obiettare che, in tali casi, la causa del negozio è data dalla protezione del patrimonio dell’incapace, poiché quest’ultimo è già protetto dagli istituti della rappresentanza o assistenza legale: se è vero, infatti, che in questi casi il trust appresta un meccanismo di protezione ulteriore (dato appunto dalla separazione patrimoniale), appare dubbio che l’istituzione di un trust possa trovare giustificazione nel mero intento di creare detta separazione, sì che non può escludersi la nullità di un trust del genere.
Si può replicare adottando invece una prospettiva "funzionale", che valorizzi la particolare meritevolezza di tutela dell’interesse sotteso ad una siffatta operazione, volta a realizzare, attraverso l'utilizzazione del trust, una maggiore tutela delle persone prive di autonomia. Il trust, in altri termini, potrebbe essere visto come misura alternativa agli ordinari istituti di protezione laddove esso si giustifichi in termini di adeguatezza e proporzionalità rispetto alle esigenze del soggetto da proteggere.
In ogni caso, anche ammettendo la validità di tale trust (e il ragionamento mi sembra vada esteso anche alla fattispecie in cui il disponente è soggetto pienamente capace), sotto il profilo della protezione del patrimonio, l'utilità del ricorso al trust si riduce, perché nel caso in cui il disponente è l'unico beneficiario del trust, i suoi creditori possono aggredire la sua posizione beneficiaria.
Invece, rispetto ai trusts familiari la cui struttura preveda beneficiari diversi dal disponente, il problema dell'identificazione della separazione patrimoniale con la ragione giustificativa va analizzato, a mio avviso, sotto una prospettiva diversa e, forse, è un falso problema.
Si è detto che i trusts familiari strutturati come trusts per beneficiari diversi dal disponente, sono apprezzabili, come può facilmente essere verificato dall'analisi della prassi, come liberalità non donative.
Si tratterà quindi di trusts la cui ragione giustificativa, che deve emergere dall'atto istitutivo è, in definitiva, realizzare una liberalità in favore dei beneficiari. La separazione patrimoniale, in trusts del genere, è evidentemente funzionale alla realizzazione dell'interesse che ha mosso il disponente a istituire il trust.
E' però possibile che il trusts sia, per così dire, "abusivo", in quanto il disponente è stato mosso a istituire il trust dal mero e unico interesse di separare il proprio patrimonio e che quindi il trust, a dispetto di ciò che emerge dall'atto istitutivo, sia affatto finalizzato a realizzare una liberalità in favore dei beneficiari.
Non si tratterà, allora, di verificare se la separazione patrimoniale può in sé costituire l'unica ragione giustificativa del trust, bensì di vedere se, a monte, vi sia stata reale volontà di istituire il trust.
L'intera vicenda giuridica, per esempio, potrebbe essere simulata, oppure il trustee potrebbe non avere in realtà assunto il controllo dei beni, con conseguente non riconoscibilità del trust o, ancora, il contegno successivo delle parti potrebbe indicare che il trust è un mero simulacro e quindi "sham", cioè "fasullo".
Con una conseguenza non di poco conto, perché altro è l'azione revocatoria, dei cui effetti beneficia solo il creditore che l'ha proposta, altro è l'azione di nullità, che determina il rientro di tutti i beni nel patrimonio del debitore, aprendo così il concorso su detti beni a vantaggio di tutti i creditori, compresi coloro che si erano disinteressati del comportamento del loro debitore.
Vi è, infine, un'ulteriore tema su cui riflettere.
Poichè il termine trust significa anche "obbligazione", occorre chiedersi come debba essere considerato un trust al cui trustee il disponente non fornisca i mezzi per adempiere alle proprie obbligazioni o comunque mezzi non coerenti con la finalità del trust. Un trust nel quale, per così dire "scientificamente", al trustee non vengano affidati i mezzi per adempiere alle proprie obbligazioni, fa sorgere qualche dubbio. Se ad es. il disponente trasferisce al trustee o vincola in trust la sola nuda proprietà, siamo certi che il trust sia effettivamente da lui voluto? La questione - che peraltro si è posta anche riguardo al f.p. avente a oggetto la nuda proprietà - non è evidentemente di poco conto, perchè un trust non voluto è eliminabile dalla scena giuridica. La mia opinione è che non si può ritenere sempre non voluto il trust quando al trustee è trasferita la sola nuda proprietà dei beni, perchè la volontà del disponente potrebbe essere quella di semplicemente rinviare nel tempo la concreta ed effettiva operatività del trust.
Il ragionamento, peraltro, potrebbe essere persino rovesciato: come giustificare, ad esempio, un trust che preveda l'affidamento al trustee di beni eccedenti rispetto alle finalità che si intendono realizzare?.
Occorre allora chiedersi se sia utile dover compiere un giudizio di proporzionalità rispetto alle finalità perseguite. Il riferimento alla proporzionalità, tra l'altro, non è estraneo al nostro ordinamento, perchè testualmente nell'art. 64 l. fall. in tema di inefficacia di atti a titolo gratuito compiuti dal fallito.
Probabilmente la soluzione, come spesso accade, è legata al caso concreto, ma il problema non va sottovalutato.

4 - Il controllo del trust da parte del disponente; limiti e clausole; cenni sulla circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 61 del 2010;
Il rapporto tra il disponente e il trustee e la riserva di poteri in capo al primo, è questione della massima rilevanza, in quanto le vicende relative ai poteri del disponente e al suo comportamento possono influenzare notevolmente la stessa validità del trust quale strumento giuridico fondato sull'affidamento.
Tale complessità di analisi della posizione giuridica del disponente si accresce, evidentemente, con riferimento al trust c.d. autodichiarato, nel quale vi è coincidenza soggettiva tra disponente e trustee.
Ciò che si esamina in questa sede non concerne, in senso stretto, l'esercizio di poteri diretti sui beni in trust, bensì i limiti di esercizio di eventuali poteri di controllo dell'esercizio dell'affidamento da parte del trustee.
Le leggi regolatrici straniere prevedono che il disponente possa riservarsi tali poteri di controllo in sede di istituzione di un trust, e ciò è confermato dalla stessa Conv. Aja, all'art. 2, il quale prevede che la ritenzione in capo al disponente di "rights" e "powers" (diritti e poteri), tradotti in italiano con il termine atecnico "prerogative", non esclude la riconoscibilità del trust.
Ad esempio il disponente potrebbe riservarsi il potere di dare il consenso al compimento di determinati atti dispositivi da parte del trustee, di esprimere pareri, vincolanti o meno e altro che la fantasia degli operatori, nei limiti consentiti dalla lgge, potrà immaginare.
Poichè però l'affidamento al trustee di una situazione giuridica soggettiva non determina il sorgere di alcun rapporto obbligatorio tra disponente e trustee, il quale non deve quindi "rendere conto" della sua attività al disponente, è necessario che i beni siano "effettivamente" posti sotto il controllo del trustee, il quale deve godere di autonomia nell'esercizio delle sue funzioni ed è responsabile non nei confronti del disponente ma dei beneficiari del trust.
L'aspetto più delicato, che può dar luogo a controversie, concerne l'individuazione dei limiti superati i quali la riserva di poteri in capo al disponente fa sì che la fattispecie non sia più riconducibile al trust ma a figura giuridica diversa (es. mandato, mero negozio fiduciario) ovvero che, come più volte rilevato, nel caso di specie il trust debba considerarsi non voluto. Un'oscillazione, insomma, tra la simulazione relativa e quella assoluta. Il trustee che "ubbidisce" al disponente non è, infatti, qualificabile come tale bensì come mandatario o fiduciario, con tutto ciò che ne consegue in punto di opponibilità ai terzi dell'effetto di separazione patrimoniale che scaturisce dall'istituzione del trust.
Naturalmente il dato formale non è sufficiente a ritenere il trustee non “eterodiretto”. Il fatto che l'atto istitutivo taccia in merito ai poteri del disponente non esclude, infatti, che la situazione concreta sia tale da ricondurre la sua posizione da quella di mero "controllo" a quella di "direzione" del trustee (e quindi dell'affidamento). La verifica andrà fatta in concreto.
Rientra nella tematica del controllo del disponente anche la fattispecie in cui il trust contenga una espressa clausola di revocabilità.
In base al diritto inglese, per regola generale un trust non è revocabile dal disponente, salvo che costui si sia riservato nell’atto istitutivo il potere di revocarlo.
Esistono comunque ipotesi di trust che sono irrevocabili per espressa disposizione di legge: è il caso, ad esempio, dei trusts istituiti ai sensi del Deeds of Arrangement Act 1914 o dell’Insolvency Act 1986 e mediante i quali un soggetto, essendo gravato da debiti, trasferisce i propri beni a un trustee affinché costui provveda a liquidarli e a distribuire il ricavato ai creditori del disponente.
Per effetto della sua revoca, il trust cessa (sia pure ex nunc) di produrre i suoi effetti e viene in essere un resulting trust, dovendo i beni in trust “tornare” nel patrimonio del disponente.
La revoca del trust non deve pertanto essere confusa con la cessazione anticipata del trust, la quale comporta invece che i beni in trust vengano attribuiti ai beneficiari finali prima della scadenza prevista nell’atto istitutivo.
L’istituzione di un trust revocabile da parte del disponente, pertanto, non è affatto vietata dalle leggi regolatrici dell’istituto.
Il problema posto dal trust revocabile (sia esso o meno liberale) va in realtà, anch'esso inquadrato nell'ambito del più ampio problema del controllo del trust da parte del disponente.
Anche con riferimento al trust revocabile, pertanto, la tematica, delicata e sfuggente – che va risolta caso per caso – è relativa all’individuazione del discrimine fra controllo lecito e controllo illecito del disponente sul trust.
Ricapitolando quanto fin qui detto, laddove nel caso concreto possa ritenersi che il disponente eserciti un illecito controllo sul trust, quest’ultimo corre il rischio di essere riqualificato in termini di mero mandato o negozio fiduciario, o addirittura, di esser dichiarato nullo per simulazione, così in ambo i casi venendosi a vanificare l’originario intento negoziale del disponente.
L’istituzione di un trust revocabile, quindi, appare seriamente esposta al rischio suddetto, con tutte le implicazioni, sia civilistiche che fiscali, che ne conseguono.
Questo tema è stato oggetto di analisi nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 61 del 2010. In questa circolare si afferma in primo luogo che il trust revocabile è una fattispecie di interposizione fittizia di persona, con conseguente imputazione dei redditi al disponente; in secondo luogo si indicano una serie di casi in cui il trust non è opponibile al fisco. La circolare non è del tutto condivisibile, tuttavia, in un recente interpello (inedito, ma del quale è stato conto in uno degli ultimi numeri della rivista Trusts), l'Agenzia ha in sostanza condiviso il principio per cui l'inopponibilità del trust al fisco si ha tutte le volte in cui non si può ritenere che i beni oggetto di trust siano stati trasferiti irreversibilmente al trustee.

5 - La scelta della legge regolatrice; cenni sulla responsabilità del notaio
L’individuazione della legge straniera che regola il trust è di fondamentale importanza.
Com’è noto, ai sensi dell’art. 6 Conv. il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente purchè detta legge preveda il trust in questione. In mancanza si applicheranno i criteri residuali di individuazione della legge regolatrice previsti dall’art. 7 Conv. E’ evidente che con riferimento al trust interno, i cui elementi importanti sono tutti riferibili all’Italia, la mancanza di individuazione della legge straniera regolatrice o l’indicazione di una legge che non preveda il trust ne dovrebbe determinare l’impossibilità di riconoscimento. Uso il condizionale perchè alla luce di recenti riflessioni non è detto che tale conseguenza sia ineluttabile. Ma il discorso ci porterebbe decisamente fuori tema.
Inoltre, ai sensi dell’art. 9 Conv., “aspetti del trust suscettibili di essere regolati a parte, quali quelli relativi alla sua amministrazione, possono essere disciplinati da una legge diversa”. E’ questo il fenomeno conosciuto come depeçage. Ai sensi dell’art. 9 Conv. è quindi possibile prevedere, ad esempio, che le regole di amministrazione del trust siano regolati da una certa legge e tutto il resto da un’altra. Ad esempio, spesso si riscontrano clausole che prevedono che le obbligazioni e la responsabilità del trustee sono disciplinate cumulativamente dalla legge regolatrice del trust e dalla legge italiana.
E’ evidente che l’operazione di scelta della legge regolatrice del trust non va effettuata con superficialità. Non pare dubbio, infatti, che le clausole dell’atto istitutivo devono essere conformi anzitutto a detta legge, e in secondo luogo, e soprattutto, alla legge italiana in applicazione dell’art. 15 Conv. che fa salve le norme imperative.
Tuttavia questo problema della scelta della legge regolatrice non deve essere spettacolarizzato o comunque sopravvalutato.
La stragrande maggioranza dei trust interni sono infatti regolati dalla legge inglese o dalla legge di Jersey. E’ quindi più che sufficiente conoscere queste due leggi e le relative interpretazioni per potere stipulare atti istitutivi di trust in modo adeguato. D’altro canto molte leggi che regolano il trust appartenente al c.d. modello internazionale non sono utilizzabili per regolare un trust interno: o perché, ad esempio, impongono che il trustee sia residente in quel paese oppure perché si tratta di leggi che prevedono caratteristiche tali da porle fuori da quanto previsto dalla Convenzione. Ad esempio vi sono leggi che attribuiscono al disponente poteri tali da non integrare quella “perdita di controllo” che costituisce la caratteristica del trust e quindi di fatto sono inutilizzabili. Una previsione in tal senso si rinviene nell'art. 9A della legge di Jersey.
Questo per dire che tanti discorsi in merito alla impossibilità per il notaio di conoscere la legge straniera, con i conseguenti problemi di responsabilità andrebbero a mio avviso ridimensionati. Si tratta soltanto di avere pazienza, studiare le fonti straniere, esaminare con attenzione i rapporti tra esse e l’ordinamento interno, rifuggendo da quella pigrizia intellettuale che troppo spesso, oggi, attanaglia chi si confronta con questa materia.
Tanto premesso, e venendo ai profili di responsabilità del notaio, viene in primo luogo da chiedersi se il notaio, richiesto di stipulare un atto istitutivo di trust interno, sia obbligato o meno ad accettare l’incarico.
Il fatto che il trust interno debba essere regolato da una legge straniera pone infatti il problema dell’applicabilità dell’art. 27 l. not., norma che obbliga il notaio a prestare il suo “ministero”, laddove l’atto non sia espressamente vietato dalla legge.
La questione è complessa, esula i limiti del presente contributo e, ovviamente, non riguarda esclusivamente il trust, ma, in generale, il rapporto tra notaio e obbligo di conoscenza della legge straniera.
Si potrebbe dare soluzione al problema rilevando che, poiché nell’ordinamento italiano non esiste alcuna norma che espressamente imponga al notaio la conoscenza della legge straniera egli potrebbe rifiutare, per tale motivo (= la non conoscenza della legge straniera), di stipulare un trust interno, con ciò non violando l’art. 27 l. not.
Quest’opinione si fonda sull’interpretazione letterale dell’art. 14 della legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del diritto internazionale privato, secondo cui l’obbligo di conoscere la legge straniera è diretto esclusivamente al “giudice”.
Proprio questa soluzione (= di non imporre ai notai l’obbligo di ricevere atti istitutivi di trust) sembrerebbe essere stata presente ai redattori della Convenzione dell’Aja. Nel predisporre le relative norme internazionalprivatistiche, e nell’interrogarsi circa i rapporti tra l’istituto noto nel mondo di common law, e gli ordinamenti di matrice romanistica, chi partecipava ai lavori rilevava che la Convenzione non avrebbe dovuto imporre ai notai l’obbligo di ricevere atti istitutivi di trust.
La Convenzione non intendeva certamente porre a carico del notariato italiano, o di altri Paesi in cui la Convenzione è in vigore, l’obbligo di prestare assistenza nella redazione di un atto istitutivo di trust al cittadino straniero che intenda istituire un trust retto dalla legge straniera su beni siti all’estero, per fare l’esempio più elementare. La Convenzione impone invece al notariato l’obbligo di riconoscere il trust come tale, e ai sensi dell’art. 11 tale riconoscimento implica, quanto al notariato, la capacità del trustee di comparire come tale avanti al notaio o ad altro pubblico ufficiale. Questo è quanto si ricava dalla Convenzione. Se si opinasse diversamente si verrebbe a configurare un obbligo del notaio a tutto campo, non certamente limitato alla istituzione di trust interni, ma di tutti i trust comunque soggetti alla legge straniera. D’altra parte, il parallelismo tra notaio e giudice è in questa materia dubbio, poiché il giudice italiano, investito di una controversia che coinvolgesse la figura del trust, dovrebbe comunque rendere la propria decisione facendo applicazione del diritto straniero, in quanto così ormai dispone il citato art. 14 del nostro diritto internazionale privato. Ma, per l’appunto, quest’obbligo deriva dal diritto interno, e corrisponde a una precisa scelta della nostra legge, al di là di quanto impone la Convenzione. Ora, tale scelta non è al momento stata compiuta dalla legge quanto al notaio, che dunque non è stato posto dal legislatore in una posizione analoga quella del giudice sotto questo profilo. Rispetto al notaio, varrebbe allora solo l’obbligo previsto dalla Convenzione, ovvero quello posto da altre norme internazionalprivatistiche.
È possibile tuttavia seguire un diverso percorso interpretativo, che potrebbe condurre a risultati opposti, salvo verificare in concreto l’estensione della responsabilità notarile, se si tratti cioè di responsabilità piena o in un certo senso “attenuata”.
Tale percorso si fonda sul superamento della lettera dell’art. 14 della legge 31 maggio 1995, n. 218, norma che, sebbene diretta in prima istanza al giudice, non escluderebbe una sua applicazione estensiva anche al notaio, con conseguenti: a) obbligo di quest’ultimo di conoscere la legge straniera e b) divieto di rifiuto di stipula di un atto regolato da una legge straniera.
Prima della legge 31 maggio 1995, n. 218, cioè nel vigore delle preleggi, la dottrina prevalente riteneva che l’unica funzione del diritto internazionale privato fosse quella di individuare quale ordinamento straniero dovesse essere applicato alle fattispecie caratterizzate da elementi di estraneità rispetto all’ordinamento giuridico del foro.
Utilizzando i criteri di collegamento, posti dalla norma di conflitto, all’ordinamento straniero competente, il diritto internazionale privato provvedeva a inserire nell’ordinamento statale le norme di diritto privato dell’ordinamento straniero richiamato, così rendendolo applicabile.
Con riferimento al problema della conoscenza del diritto straniero applicabile, la dottrina sosteneva, sempre con riferimento al giudice, l’applicabilità del brocardo iura novit curia anche con riferimento al diritto straniero richiamato.
La giurisprudenza invece optava per la tesi secondo cui l’onere della prova di procurare la conoscenza al giudice del diritto straniero spettava alla parte che ne chiedeva l’applicazione. Di conseguenza il diritto straniero era qualificabile come mero “fatto”, che in quanto tale doveva essere provato dalla parte.
Sul piano pratico, tuttavia, la giurisprudenza da un lato si riservava il ruolo di controllo dell’attività delle parti, attribuendo al giudice la facoltà di verificare il diritto straniero prodotto dalla parte; dall’altro, nei casi in cui non fosse stato possibile pervenire alla conoscenza del diritto straniero applicabile, anziché rigettare la pretesa (ciò che sarebbe stato coerente con il principio dell’onere della prova), applicava, per la soluzione del caso, il diritto italiano.
L’entrata in vigore dell’art. 14 della legge 31 maggio 1995, n. 218, muta tale quadro, affermando invece che “l’accertamento della legge straniera è compiuto d’ufficio dal giudice”.
A tal fine, il giudice può avvalersi della conoscenza diretta, dei mezzi messi a disposizione dall’ordinamento e, come precisa il secondo periodo della norma, degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramite del Ministero della giustizia e dell’ausilio di esperti o istituzioni specializzate, anche stranieri.
La norma prevede poi che, nel caso in cui non sia stato possibile determinare il contenuto del diritto materiale straniero, il giudice deve ricercare la legge applicabile attraverso gli altri criteri di collegamento eventualmente contemplati dalla norma di conflitto competente.
Infine, in mancanza di tali ulteriori criteri di collegamento oppure quando anche la legge designata tramite questi ultimi non sia conoscibil], si dovrà applicare la legge italiana.
In considerazione della finalità della norma, non è quindi da escludere che la sua applicazione possa essere estesa a tutti i soggetti dell’ordinamento che svolgono funzioni di controllo di legalità, tra cui appunto i notai.
In sostanza, nel momento in cui l’ordinamento interno attraverso le sue norme di diritto internazionale privato, stabilisce che a una certa fattispecie debba essere applicato il diritto straniero, sembrerebbe conseguenziale concludere che l’applicazione di tale diritto debba essere assicurata da tutti coloro cui l’ordinamento attribuisce funzioni di controllo di legalità.
Se quindi si condivide l’interpretazione estensiva della norma, il notaio che accetta l’incarico di stipulare un atto istitutivo di trust interno, obbligatoriamente regolato da una legge straniera, sarà tenuto a conoscerla e a osservarne le disposizioni, con tutto ciò che ne consegue in tema di responsabilità nei confronti del cliente.
Il presupposto di operatività della norma è però che il notaio stia esercitando le sue funzioni, cioè abbia accettato l’incarico di stipulare l’atto regolato dalla legge straniera.
Per cui il problema è se, una volta ammesso che l’ordinamento italiano consente alle parti di regolare una certa fattispecie sulla base delle norme di un ordinamento straniero (come accade nel caso del trust), il notaio sia obbligato a esercitare le sue funzioni ai sensi dell’art. 27 l. not.
Su questo punto ci pare da condividere la recente tesi dottrinale secondo cui la regola di cui all’art. 27 l. not. deve trovare un limite nell’adeguatezza della preparazione professionale rispetto alla prestazione da adempiere, in quanto se così non fosse si giungerebbe a concludere che l’ordinamento, imponendo l’obbligo ex art 27 l. not. tollererebbe una possibile deficienza dell’attività solutoria. Pertanto, nell’ipotesi di una prestazione che richieda un bagaglio tecnico superiore allo standard, conclude tale autore, è da ritenere che il notaio possa rifiutarsi, senza con ciò incorrere in violazione dell’art. 27 l. not.
Con riferimento al trust si potrebbe quindi – ragionevolmente – sostenere che non si tratti di prestazione standard e che quindi, sebbene sia doveroso per il notaio, nell’ambito dei suoi doveri di aggiornamento professionale, occuparsi anche di tale materia, in linea di massima gli sia consentito di rifiutare la prestazione.
In ogni caso non può disconoscersi che la conoscenza della legge straniera (in generale, perché riguardo al trust il discorso parrebbe essere diverso) potrebbe essere difficoltosa per il notaio, dovendosi trattare, tra l’altro, di conoscenza del “contenuto” del diritto straniero, cioè del diritto straniero concretamente applicato, come si desume dall’art. 15 della legge 31 maggio 1995, n. 218, il quale stabilisce che «la legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo».
Una volta ammessa l’applicabilità dell’art. 14 anche al notaio non pare però potersi dubitare che anch’egli potrà dotarsi di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla legge perché il giudice ottenga la conoscenza del diritto straniero.
Il notaio potrà quindi avvalersi sia del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200 (c.d. legge consolare), che non pone limitazioni di sorta ai soggetti che possono chiedere le attestazioni consolari “concernenti leggi e consuetudini vigenti (...) nello Stato di residenza” del console; sia dell’art. 3, lett. a), del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione del Consiglio d’Europa in materia di informazione sul diritto straniero del 7 giugno 1968, il quale stabilisce che le richieste di informazioni possono essere inoltrate “anche da qualsiasi Autorità o persona che agisca nell’ambito di sistemi ufficiali d’assistenza giudiziaria o consulenza legale” sia pure limitatamente all’ipotesi in cui la consulenza legale sia svolta “a favore di persone che si trovino in condizione di debolezza per motivi economici”; sia, ovviamente, di esperti o istituzioni specializzate.
Tenuto conto di quanto fin qui esposto passiamo a illustrare i profili di responsabilità del notaio.
È importante preliminarmente sottolineare la rilevanza del dovere di informazione del notaio in merito alle caratteristiche e agli effetti che il ricorso al trust determina.
Tale dovere rientra, secondo la dottrina, tra gli obblighi inderogabili del notaio, in quanto coessenziale al compito primario di indagare la volontà delle parti.
Questo dovere di informazione è particolarmente rilevante, riguardo al trust, in relazione a uno dei suoi effetti principali, costituito dal trasferimento dal disponente al trustee della proprietà dei beni in trust, elemento che di regola non sempre viene colto con la necessaria consapevolezza da parte di chi intende istituire un trust, tanto che spesso – secondo quanto risulta dalla prassi – il notaio è richiesto di introdurre nell’atto penetranti poteri di controllo dell’operato del trustee.
Il tecnicismo proprio del trust, connesso alla notevoli sue problematiche applicative, rende pertanto ineludibile da parte del notaio un’attenta indagine della volontà delle parti, volta a verificare se davvero il trust sia lo strumento maggiormente idoneo allo scopo pratico che esse intendono realizzare.
Quanto agli obblighi informativi del notaio circa l’esistenza di soluzioni giuridiche alternative, potrebbe ritenersi che essi non rientrino nell’ambito dell’attività informativa “necessitata” che il notaio deve svolgere nell’ambito delle funzioni pubbliche affidategli dalla legge. Secondo la dottrina questo dovere di consiglio rientrerebbe nell’ambito dell’attività libero professionale e diverrebbe obbligatorio solo nel caso in cui l’atto richiesto dalle parti confligga con i canoni dell’ordinamento, nel qual caso il notaio dovrebbe adeguare la volontà delle parti mediante l’indicazione della soluzione alternativa che più si avvicini ai fini concretamente perseguiti.
L’obbligo di informazione, comunque, per quanto riguarda il settore delle professioni protette, viene generalmente sussunto nell’ambito del contenuto della prestazione, sicché la sua violazione comporterà responsabilità contrattuale del notaio.
Qualora il notaio assuma l’incarico di stipulare un atto istitutivo di trust, esso potrà avere la veste di incarico “pieno”, cioè un incarico avente per oggetto proprio la redazione dell’atto istitutivo, nel qual caso egli sarà soggetto a piena responsabilità sia in merito alle modalità operative del trust come istituto, sia in merito alla legge regolatrice cui lo stesso è sottoposto. Se il notaio, infatti, nel prestare il proprio ministero per un atto sottoposto alla legge italiana è garante della conformità dell’atto stesso all’ordinamento italiano altrettanto lo deve essere con riguardo alla legge straniera prescelta per regolamentare il trust.
Come ricordato all’inizio, l’atto istitutivo di trust non deve violare norme inderogabili dell’ordinamento interno, che l’art. 15 della Convenzione fa salve. Non v’è quindi dubbio che rispetto a un atto istitutivo di trust che contenga clausole in conflitto con norme inderogabili dell’ordinamento italiano, è prospettabile una responsabilità disciplinare del notaio ai sensi dell’art. 28 l. not., oltre alla responsabilità civile nei confronti del cliente per i danni ad esso causati.
Quanto alla responsabilità per violazione dell’art. 28 l. not. con riferimento alla legge straniera applicabile alla fattispecie va preliminarmente osservato che la possibile obiezione secondo cui la “legge” richiamata da tale norma è solo quella italiana non ha pregio, ove si accolga la tesi esposta in precedenza circa l’applicabilità dell’art. 14 legge 31 maggio 1995, n. 218 (anche), al notaio. Se l’ordinamento, o in conseguenza dell’applicazione delle norme di conflitto ovvero (è il caso del trust) in quanto offre ai privati una scelta in tal senso, stabilisce che a una determinata fattispecie deve applicarsi la legge straniera, ne consegue che il notaio deve garantire, appunto, la conformità dell’atto stipulato alla legge regolatrice e pertanto risponderà della sua eventuale violazione.
L’affermazione di cui sopra va però calata nell’ambito delle modalità applicative dell’art. 14 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (ove esso si ritenga applicabile al notaio), perché se è vero che il legislatore ha posto sullo stesso piano la conoscenza della legge italiana e la conoscenza della legge straniera, non è men vero che la norma tiene conto delle difficoltà che l’operatore giuridico può avere nel procurarsi la conoscenza della legge straniera, stabilendo delle regole operative a tal fine.
Conseguentemente, se il notaio, al fine di conoscere la legge straniera che dovrà regolare un trust interno, ha operato con diligenza e ha quindi ritenuto che l’atto da lui stipulato non contiene clausole espressamente vietate da tale legge, egli non potrà essere ritenuto responsabile nel caso in cui dovesse risultare che altre disposizioni del diritto straniero applicabile - di cui il notaio non abbia avuto conoscenza sebbene abbia operato con diligenza – prevedevano invece l’invalidità di una o più clausole.
Di là dai casi in cui il notaio abbia prospettato l’utilizzazione del trust e assunto l’incarico di redigerlo con conseguente piena responsabilità, potrebbero esservi casi in cui il notaio, a conoscenza in modo più o meno approfondito dei meccanismi operativi del trust anzitutto non ritenendosi esperto e non conoscendo le leggi regolatrici della materia suggerisce al cliente di rivolgersi ad altri.
Gli scenari che possono prospettarsi di fronte a questa situazione sono i seguenti.
Il cliente, pragmaticamente, potrebbe accettare il suggerimento del notaio e rivolgersi ad altri.
Il notaio accetta egualmente l’incarico ma, appunto non ritenendosi sufficientemente esperto della materia, decide – con scelta che potrebbe essere condivisa con il cliente o effettuata in modo indipendente - di avvalersi di un esperto per la redazione dell’atto e/o per la valutazione dei profili relativi alla scelta della legge, nonché per la verifica della conformità ad essa dell’atto istitutivo di trust; ciò in analogia a quanto previsto per i giudici dall’art. 14, I comma, della legge 31 maggio 1995, n. 218.
Il fatto che il notaio possa avvalersi della consulenza altrui al fine di meglio redigere un atto, salvo ipotizzare un notaio onnisciente, è comune (si pensi, per esempio, ad atti che coinvolgono delicati aspetti di natura urbanistico-edilizia) e quindi non è affatto da escludere che in una materia che deve essere regolata necessariamente da una legge straniera il notaio abbia il diritto-dovere di rivolgersi ad un esperto. D’altro canto è una conseguenza che discende pianamente dal ritenere applicabile al notaio l’art. 14 della legge 31 maggio 1995, n. 218.
Sul piano della responsabilità non pare dubbio che neanche l’intervento dell’esperto esimerà il notaio dal controllo di conformità dell’atto alla legge italiana.
Quanto invece al controllo di conformità dell’atto alla legge straniera, l’intervento dell’esperto potrebbe avvenire, come già detto, all’insaputa del cliente, nel qual caso sembra evidente che il notaio assumerà responsabilità piena nei confronti del cliente, fermo restando il suo diritto di rivalsa nei confronti dell’esperto di cui egli si è avvalso per la redazione dell’atto.
Qualora invece l’esperto sia scelto direttamente dal cliente o dal notaio con il consenso del cliente potrebbe prospettarsi, sul punto della responsabilità, una condivisione della responsabilità tra notaio ed esperto a seconda del grado di coinvolgimento di quest’ultimo.
La tesi proposta è quindi quella secondo cui, sul piano della responsabilità disciplinare (id est : violazione dell’art. 28 l. not.), il notaio sarà pienamente responsabile quanto alla conformità dell’atto istitutivo di trust alle norme inderogabili dell’ordinamento interno, mentre quanto alla conformità dell’atto istitutivo di trust alla legge regolatrice straniera, l’art. 28 l. not. potrebbe trovare un’applicazione “attenuata”, laddove il notaio dimostri di avere svolto con diligenza il lavoro di ricerca e applicazione della normativa straniera.
Accanto alla responsabilità disciplinare del notaio può prospettarsi, ovviamente, anche una sua responsabilità civile.
In materia di attività professionale, com’è noto, la disciplina generale della responsabilità è data dal combinato disposto degli artt. 1176 e 1218 c.c. A questa disciplina si aggiunge quella speciale dell’art. 2236 c.c., che riguarda specificamente il contratto d’opera intellettuale, norma applicabile nei casi in cui la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.
Nel caso dell’atto istitutivo di trust parrebbe potersi distinguere sulla base del contenuto della prestazione richiesta e quindi secondo che al notaio venga richiesta una prestazione “piena” ovvero una prestazione che si sostanzi nel mero controllo di legalità di un atto predisposto da altri professionisti.
Quanto all’applicabilità dell’art. 2236 c.c. è noto che la norma ha la funzione di limitare la responsabilità del professionista. Essa, appunto, nel caso in cui la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, limita la responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave.
Secondo la giurisprudenza la limitazione di responsabilità del notaio ai soli casi di dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 c.c. attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza.
Infatti, anche nei casi di speciale difficoltà, tale limitazione non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza o imprudenza, dei quali il notaio risponde in ogni caso.
È stato infatti osservato, in tema di responsabilità del professionista forense, cui sotto questo profilo può essere assimilata la responsabilità del notaio, che questi risponde nei confronti del proprio cliente per la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e presuppone la violazione di quella diligenza media esigibile ai sensi dell’art. 1176, II comma, c.c.
Val quanto dire che nel caso, appunto, di violazione di norme della legge straniera o italiana facilmente riconoscibili, non vi dovrebbe essere spazio per l’applicazione della limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c.
Per concludere sul punto, occorre rilevare che in non pochi atti istitutivi di trust si riscontra una clausola dalla quale risulta che il controllo di conformità dell’atto istitutivo alla legge straniera è stato effettuato non dal notaio ma da un esperto.
La clausola, ove si ritenga applicabile al notaio l’art. 14 della legge 31 maggio 1995, n. 218, appare lecita.
Non si tratta infatti di disposizione nell’interesse del notaio, vietata dall’art. 28, I comma, n. 3, l. not., né incompatibile con l’art. 47, II comma, l. not., che attribuisce al notaio il compito di curare, sotto la propria direzione e responsabilità la compilazione integrale dell’atto.
Quanto alla violazione dell’art. 28, I comma, n. 3, l. not., essa è da escludersi, perché la ratio della norma è quella di garantire che nello svolgimento della sua prestazione il notaio sia imparziale, mentre la clausola in oggetto ha solo la funzione di limitare la responsabilità notarile con riferimento alla conformità dell’atto alla legge straniera.
L’art. 47, II comma, l. not., non appare violato perché una volta ammessa l’applicabilità al notaio dell’art. 14 della legge 31 maggio 1995, n. 218, ne consegue il diritto-dovere del notaio di avvalersi di un esperto che gli fornisca una consulenza in merito al contenuto della legge straniera da applicare al caso di specie. Indicare in atto il nominativo dell’esperto non pare quindi incidere sulla “compilazione integrale dell’atto”, svolgendo una funzione informativa nei confronti delle parti, limitativa della responsabilità notarile, e pertanto lecita nei limiti in cui l’ordinamento consente clausole limitative della responsabilità (art. 1229 c.c.).
Esaminiamo infine, molto brevemente, il profilo dell’esonero del notaio da responsabilità.
Anzitutto occorre delimitare la cornice entro la quale può operare l’esonero. Certamente esso può operare esclusivamente nell’ambito di ciò che non attiene alla funzione pubblica del notaio. Quindi le parti non potrebbero esonerare il notaio dal controllo di legalità.
Quanto alla forma dell’esonero, la giurisprudenza, emanata in materia di esonero dalle visure ipocatastali, ma che esprime principi idonei ad essere assunti come generali, richiede un forte onere probatorio. È quindi da escludersi un esonero da responsabilità desunto per fatti concludenti.
In secondo luogo occorre evidenziare la possibile applicazione dell’art. 33, II comma, lett. b), del Codice del consumo, di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, il cui art. 36, I comma, sanziona di nullità, sia pure relativa, e non più di inefficacia, le disposizioni escludenti oppure limitanti le azioni del soggetto consumatore nei riguardi del professionista (nel nostro caso il notaio), nella fattispecie di inadempimento totale o parziale o di inesatto adempimento del professionista stesso.
La questione della natura della responsabilità del notaio, com’è noto, è discussa. Vi è chi ritiene che essa sia sempre contrattuale, in quanto il danno deriverebbe dalla violazione di un’obbligazione specifica già esistente in capo al pubblico ufficiale; chi ritiene che essa sia sempre extracontrattuale, in quanto tra il notaio e il cliente non si instaurerebbe mai un rapporto contrattuale; chi invece assume una posizione intermedia, distinguendo tra responsabilità nei confronti delle parti dell’atto - contrattuale – e responsabilità nei confronti di soggetti diversi da queste – extracontrattuale. Quest’ultima è la soluzione oggi maggiormente seguita, che però lascia scoperto il problema della responsabilità nei confronti di chi, pur essendo parte dell’atto non ha conferito al notaio espresso incarico.
Potrebbe affermarsi, allora, che il semplice fatto di avere goduto della prestazione notarile, ancorché non la si sia sollecitata con conferimento di apposito incarico, determina l’insorgenza di una pretesa creditoria in caso di comportamento illecito del professionista. Tale conclusione si fonderebbe sulla posizione di terzietà propria del notaio, che impedisce di vederlo come il professionista tenuto all’adempimento della prestazione nei confronti di chi gli ha formalmente conferito l’incarico. Ciò naturalmente limitatamente alle prestazioni che per legge il notaio è obbligato a svolgere e non pure per le prestazioni di consulenza particolare circa l’elaborazione del testo contrattuale.
Occorre notare, comunque, che la giurisprudenza afferma, anche di recente, che la responsabilità del notaio nei confronti del cliente è di natura contrattuale, e legittimato a farla valere è esclusivamente la parte che ha richiesto la prestazione, sulla base del contratto di prestazione d’opera intellettuale.
Naturalmente occorrerà l’esistenza del nesso di causalità tra comportamento colposo o doloso del notaio e danno, nel senso che esso deve essere conseguenza diretta ed immediata dell’inadempimento.
Un cenno alla responsabilità nei confronti di terzi, che nel caso del trust può assumere una certa rilevanza.
Non v’è dubbio che si tratti di responsabilità extracontrattuale, mancando qualsiasi rapporto negoziale tra terzo e notaio.
La questione che può venire in gioco nel caso del trust è quella della responsabilità nei confronti del o dei beneficiari che per effetto della redazione di un atto istitutivo di trust invalido abbiano a risentire un danno, non potendo acquisire i diritti nascenti in loro favore.
Sul problema della tutela del “disappointed beneficiary” la giurisprudenza inglese si è espressa più volte, sebbene in materia testamentaria, con decisioni peraltro controverse e discusse, sanzionando quale responsabile l’avvocato che abbia redatto un testamento in modo tale da pregiudicare il diritto del o dei beneficiari.
In diritto italiano, nel caso di atti destinati ad avere effetti nei confronti di terzi non comparsi davanti al notaio, a fronte di una risalente giurisprudenza che ha ritenuto configurabile una responsabilità verso terzi in tutti i casi di nullità dell’atto, la dottrina ritiene, in senso critico, che la responsabilità possa ammettersi solo nel caso di atto bensì nullo, ma che tuttavia pregiudichi interessi diretti di terzi che su quell’atto avrebbero fondato proprie ragioni di diritto e non interessi puramente indiretti. L’interesse rilevante, che può legittimare la richiesta di risarcimento, è pero solo quello giuridico e ciò può essere desunto con certezza solo quando si rivengono nell’ordinamento norme “di protezione” che qualificano un determinato interesse privato, rendendolo giuridicamente rilevante.
Tanto premesso, può svolgersi un confronto tra trust per beneficiari e contratto a favore di terzo. Rispetto a quest’ultimo sembra escludersi che nell’ordinamento vi sia una norma di protezione giuridica dell’interesse del terzo alla conoscenza dell’atto a lui destinato, idonea a qualificarlo sul piano del “giuridicamente rilevante” al fine di legittimare l’affermazione della risarcibilità del danno provocato da una sua presunta lesione. Ciò si ricava, per il contratto a favore di terzo, dalla possibilità di revoca dell’attribuzione, che conferma come la posizione giuridica del terzo non sia assoluta.
Applicando questi principi al trust per beneficiari, in senso molto lato assimilabile ad un contratto a favore di terzo, direi che non può affermarsi in via assoluta la non risarcibilità del danno provocato al terzo beneficiario, dovendosi verificare la situazione caso per caso, anche se vari elementi, non sviluppabili in questa sede, sembrano deporre, almeno nel caso di “fixed trust”, cioè di trust non discrezionale, per la piena protezione della posizione giuridica del beneficiario. Basti pensare alla regola giurisprudenziale propria del diritto inglese secondo cui i beneficiari, se tutti capaci e concordi, possono porre in qualsiasi momento fine al trust, acquisendone i beni, per accorgersi come l’impossibilità di esercizio di detto diritto nel caso di trust nullo indubbiamente procuri una lesione nella sfera giuridica dei beneficiari, i quali si vedono privati di un’attribuzione patrimoniale in loro favore.

6 - Trust “estero”, sua circolazione in Italia, compiti del notaio.
Non sono infrequenti, vista l’elevata diffusione che l’istituto del trust ha nel mondo globalizzato, casi in cui il notaio italiano venga richiesto di ricevere o autenticare atti in cui debba comparire quale parte il trustee di un trust estero (o interno) il cui atto istitutivo sia stato redatto all’estero, sia nella forma dell’atto tra vivi che mortis causa.
Nel prosieguo esamineremo i seguenti casi:
a) atto istitutivo di trust redatto all’estero e notaio italiano richiesto di stipulare un atto di “conferimento” al trustee di tale trust di un bene sito in Italia, eseguendo poi i relativi adempimenti pubblicitari;
b) atto istitutivo di trust redatto all’estero contenente anche il trasferimento al trustee di beni siti in Italia e formalità pubblicitarie da eseguire in Italia;
c) atto istitutivo di trust redatto all’estero e trustee che deve intervenire in atto notarile per acquistare un bene o disporre di un bene in trust.
Un cenno verrà fatto, infine, alla fattispecie del trust testamentario.
Va anzitutto premesso che, in generale, la facoltà del trustee di comparire davanti a un notaio italiano discende pacificamente dall’art. 11, II comma, della Convenzione, in forza del quale «…il trustee [ha] la capacità di … di comparire, in qualità di trustee, davanti a notai o altre persone che rappresentino un’autorità pubblica» e tale facoltà costituisce un effetto proprio del riconoscimento del trust cui l’Italia è obbligata in forza della Convenzione.
Il caso sub a) è quello in cui occorre conferire in un trust istituito all’estero un bene sito in Italia e l’intervento del notaio sia richiesto in quanto occorra eseguire le relative formalità pubblicitarie. Si pensi al caso in cui occorra apportare al trust una quota di società a responsabilità limitata ovvero un bene immobile.
In via preliminare va chiarito cosa si intende per “atto estero”: in senso lato, per “atto estero” si intende qualunque atto giuridico redatto all’estero, sia da pubbliche autorità straniere, sia da privati, di norma in lingua straniera, ma anche in lingua italiana; in senso stretto si intende un atto ricevuto o autenticato anche in lingua italiana da pubbliche autorità straniere, compresi i rappresentanti diplomatici o consolari stranieri accreditati in Italia. Non sono atti esteri, invece, pur essendo stati ricevuti o autenticati all’estero, gli atti dei nostri consoli, perché promanano senza dubbio da autorità italiane.
In presenza di un atto estero di trust un primo problema riguarda l’applicabilità o meno dell’art. 106, n. 4, l. not., il quale dispone che nell’archivio notarile sono depositati e conservati gli originali o le copie degli atti pubblici rogati e delle scritture private autenticate in paese estero prima di farne uso nello Stato, sempre che non siano già depositati presso un notaio esercente in Italia.
Il problema si complica anche in considerazione del fatto che il trust estero può essere stato istituito in paesi che non prevedono l’atto pubblico nè la scrittura privata autenticata. E l’essere il trust redatto per scrittura privata “semplice” ne comporta l’irrilevanza per la normativa che disciplina il deposito degli atti esteri, mancando la certezza della sua provenienza. Ciò tuttavia non esclude che esso possa essere liberamente utilizzato in Italia ed eventualmente anche ricevuto in deposito da un notaio, ai sensi dell’art. 1 del r.d.l. 14 luglio 1937, n. 1666, sebbene per finalità diverse da quelle degli atti esteri.
Per individuare quali sono i compiti del notaio chiamato a ricevere siffatto atto di conferimento occorre in primo luogo ricordare che l’art. 4 della Convenzione non si applica alle questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici in virtù dei quali dei beni sono trasferiti al trustee. Ciò significa che il regime giuridico dell’atto traslativo dal disponente (o da terzi, ove ammissibile in forza dell’atto istitutivo di trust) al trustee sarà regolato dalla lex fori).
Il notaio chiamato a ricevere o autenticare tale atto di conferimento dovrà in primo luogo essere certo dell’esistenza e provenienza dell’atto istitutivo di trust che, come già rilevato, potrebbe essere stato redatto anche per scrittura privata non autenticata; in secondo luogo essere certo che il soggetto che si dichiara trustee sia titolare dell’ufficio e abbia il potere di ricevere il conferimento; in terzo luogo verificare se il previo deposito dell’atto istitutivo di trust sia necessario o quantomeno opportuno; infine stabilire i limiti di estensione del controllo di legalità cui egli è tenuto.
Ai sensi dell’art. 4 della Convenzione, per procedere alla stipula di un atto di conferimento di beni siti in Italia al trustee di un trust istituito all’estero, si applicherà la legge italiana. Qualora si tratti di beni immobili, l’atto dovrà, ai sensi dell’art. 2657 c.c., essere pubblico o con sottoscrizioni autenticate.
A tale atto di conferimento dovranno intervenire il trustee e il soggetto trasferente, che non necessariamente sarà il disponente, potendo l’atto istitutivo di trust prevedere che anche terzi diversi dal disponente possano conferire beni in trust.
Quanto al soggetto trasferente, il compito del notaio non sarà diverso da quello che ordinariamente svolge in materia di trasferimenti, dovendo egli verificare anzitutto la legittimazione a disporre e, trattandosi di beni immobili, svolgere tutti i controlli cui egli è ordinariamente tenuto.
Per quanto riguarda il trustee, nel caso di specie occorrerà verificare la sua legittimazione a ricevere in affidamento ulteriori beni, ciò che imporrà l’analisi dell’atto istitutivo di trust. Ma, ancor prima, occorrerà verificare che il soggetto che interviene in atto qualificandosi trustee sia effettivamente titolare dell’ufficio, operazione che potrebbe essere difficoltosa, atteso che la stragrande maggioranza dei paesi stranieri che conoscono l’istituto del trust non ne prevedono la pubblicità.
Il problema dell’individuazione del titolare dell’ufficio del trustee, tuttavia, con riferimento alla fattispecie che stiamo analizzando, si ridimensiona nella misura in cui è lo stesso disponente a conferire ulteriori beni in trust e l’ufficio di trustee è rivestito dallo stesso soggetto nominato nell’atto istitutivo. Diviene più complicato (sempre nei casi in cui del trust non sia stata data pubblicità) qualora il trustee originario sia mutato.
In entrambi i casi, inoltre, occorre accertarsi dell’esistenza e provenienza dell’atto istitutivo che, per essere riconosciuto, dovrà in primo luogo essere redatto in forma scritta, in quanto l’art. 3 della Convenzione stabilisce che essa (la Convenzione) si applica ai soli trust istituiti volontariamente e provati per iscritto.
Quanto alla certezza della provenienza dell’atto istitutivo da parte di chi lo ha sottoscritto, i problemi maggiori si pongono nel caso in cui esso sia stato redatto per scrittura privata non autenticata, come accade nei paesi di common law.
Con riferimento alla fattispecie che stiamo trattando, in cui l’atto istitutivo di trust non contiene anche il trasferimento dei bene immobile e quindi non deve essere esso stesso oggetto di pubblicità, ed è stato pubblicato in forma non autentica il problema può essere risolto con il deposito di esso e il contestuale riconoscimento delle sottoscrizioni da parte del disponente e del trustee. In questo caso, l’atto istitutivo si vestirebbe di forma pubblica e non vi sarebbero incertezze di sorta circa la sua esistenza e provenienza.
Qualora invece l’atto istitutivo sia stato redatto in forma autentica è opportuno ottenerne una copia debitamente legalizzata o munita di apostille, se del caso tradotta in lingua italiana.
Quanto al deposito di tale atto ai sensi dell’art. 106, n. 4, l. not., se si interpreta il termine “farne uso”, contenuto nella norma, come riferentesi al caso in cui l’atto è destinato all’esecuzione di formalità pubblicitarie, esso a rigore non è necessario, perché l’atto istitutivo di trust, di per sé, non è oggetto di pubblicità.
Come si è visto, però, la “causa” del trasferimento dei beni al trustee è rinvenibile nell’atto istitutivo, e ciò potrebbe indurre a ritenere quantomeno opportuno il suo deposito, al fine di poter individuare, sulla base di quanto in esso stabilito, la natura del trust (ad esempio se trattasi di trust liberale, solutorio, di garanzia). E l’individuazione della natura del trust riveste importanza a vari fini: per esempio al fine di stabilirne il trattamento tributario. Gli interessati, dal canto loro, potrebbero invocare ragioni di riservatezza circa il contenuto dell’atto istitutivo e pretendere di tenerlo riservato. E l’interesse a tenere riservato il contenuto dell’atto istitutivo è – entro ragionevoli limiti - certamente meritevole. D’altro canto, dal punto di vista del notaio rogante, sarà più che sufficiente, per giustificare causalmente il trasferimento, menzionare nell’atto l’esistenza del trust, senza quindi doverlo allegare all’atto traslativo.
L’ultimo, ma non per questo meno importante, compito del notaio è il controllo di legalità.
Il controllo di legalità, rispetto a un trust non solo stipulato all’estero ma anche qualificabile come “estero” (in contrapposizione a quello “interno”), si atteggia in maniera peculiare. Ciò in quanto è possibile che, pur se le nostre norme di diritto internazionale privato individuino come applicabile ad un trust “non interno” una norma straniera contrastante (in ipotesi) con una nostra norma imperativa, tale norma straniera trovi ugualmente applicazione ex art. 16 legge 31 maggio 1995, n. 218, in quanto essa non contrasti con il nostro ordine pubblico. È in alternativa ipotizzabile che le nostre norme di diritto internazionale privato individuino come applicabile ad un trust “non interno” il diritto italiano e che una certa clausola di esso contrasti con una nostra norma imperativa: in casi del genere, non può escludersi che il giudice italiano faccia ricorso, sia pure in ipotesi limitate e quale extrema ratio, alla previsione dell’art. 15, II §, della Convenzione, secondo la quale “il giudice cercherà di realizzare gli obiettivi del trust con altri mezzi giuridici”.
È possibile, inoltre, e veniamo al caso sub b), che l’atto istitutivo di trust redatto all’estero contenga anche il trasferimento al trustee di beni siti in Italia e che in Italia debbano eseguirsi formalità pubblicitarie.
In questo caso non vi è dubbio che l’atto istitutivo di trust redatto all’estero debba essere depositato ex art. 106, n. 4, l. not.
I problemi da affrontare sono analoghi a quelli sopra esaminati.
Tuttavia, qualora per i beni trasferiti al trustee occorra eseguire formalità pubblicitarie in Italia, il notaio che riceve in deposito l’atto dovrà svolgere ulteriori verifiche. L’indagine al riguardo sarà limitata ai casi più frequenti: la trascrizione nei registri immobiliari e l’iscrizione nel registro delle imprese.
Com’è noto, per l’esecuzione di formalità pubblicitarie in tali registri la legge richiede che l’atto da trascrivere o iscrivere abbia determinati requisiti di forma: atto pubblico o scrittura privata autenticata ai sensi dell’art. 2657 c.c., per ciò che riguarda la trascrizione; mentre, ai fini della pubblicità nel registro delle imprese troverà applicazione l’art. 11, IV comma, del d.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581, il quale prevede che l’atto da iscrivere è depositato in originale, con sottoscrizione autenticata, se trattasi di scrittura privata non depositata presso un notaio; negli altri casi l’atto va depositato in copia autentica.
Sorge quindi il (primo) problema dell’individuazione del regime formale degli atti esteri, quando ne sia richiesta la forma autentica a fini pubblicitari, sia per effetto di norme imperative interne, sia per effetto di norme di diritto internazionale privato.
L’art. 55 della legge 31 maggio 1995, n. 218, stabilisce che la pubblicità degli atti di costituzione, trasferimento ed estinzione dei diritti reali è regolata dalla legge dello Stato in cui il bene si trova al momento dell’atto. Si applicherà quindi, per la pubblicità nei registri immobiliari e nel registro delle imprese, la legge italiana e, in particolare, le norme sopra richiamate, con la conseguenza che, per l’esecuzione delle formalità pubblicitarie il requisito della forma autentica sarà richiesto anche se l’atto estero è sottratto, quanto alla forma ad substantiam, a particolari oneri di forma.
Un trust istituito per atto non autentico, contenente, per esempio, il trasferimento di un bene immobile sito in Italia al trustee non sarà quindi idoneo per la trascrizione e, a tal fine, andrà necessariamente “riprodotto” in forma autentica, ciò che potrà avvenire anche in sede di deposito dello stesso ai sensi dell’art. 106, n. 4, l. not.
Il problema concerne quindi l’individuazione dei requisiti minimi che tale atto deve avere per potere essere (prima) depositato e (poi) pubblicizzato in registri pubblici italiani.
In dottrina – sopratutto in ambito notarile – è ampiamente diffusa la tesi secondo cui in materia di forma dell’atto autentico proveniente dall’estero opera il c.d. principio di equivalenza. In forza di tale principio un atto pubblico proveniente dall’estero potrà dirsi “equivalente” all’atto pubblico italiano solo se esso presenti determinati requisiti minimi in relazione alla funzione che esso deve svolgere e ai valori che intende proteggere.
Quanto alla scrittura privata autenticata, invece, si afferma che quella estera potrà dirsi equivalente a quella italiana, nella misura in cui essa presenti tutti gli elementi per poterla qualificare come scrittura privata autenticata secondo quanto previsto dal nostro ordinamento.
Di conseguenza non sarebbe tale qualunque atto formato o autenticato da un soggetto che si qualifica come notaio, ma solo quello proveniente da pubblico ufficiale avente caratteristiche e funzioni analoghe a quelle del notaio italiano; non sarà equivalente un qualunque atto pubblico ma solo quello in cui sia accertata l’identità delle parti e vi sia la consapevolezza del consenso prestato.
Aderire a questa tesi avrebbe una rilevante conseguenza proprio con riferimento al trust estero, che di regola è redatto in paesi (ad esempio Inghilterra, Stati Uniti), che prevedono un figura di “notary public” che ha caratteristiche tali da renderlo in nulla assimilabile al notaio di diritto italiano. Un trust autenticato da un notary public inglese o americano non sarebbe quindi idoneo per l’esecuzione delle formalità pubblicitarie.
A sostegno del principio di equivalenza viene citata una giurisprudenza di legittimità in materia di procura alle liti redatta all’estero.
Secondo tale giurisprudenza la procura alle liti utilizzata in un giudizio che si svolge in Italia, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla nostra legge processuale, la quale tuttavia, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicché in tali evenienze la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della lex loci; occorre però che il diritto straniero quanto meno conosca i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che li caratterizzano nell’ordinamento italiano e che consistono, per la scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza.
Tale tesi è aspramente criticata da una dottrina – sempre notarile – che ritenendo non estensibili tali principi giurisprudenziali alle fattispecie diverse dalla procura alle liti, afferma che la regola applicabile è quella secondo cui un atto è autentico se tale è qualificato dalla lex loci.
A sostegno di tale soluzione è citata altra giurisprudenza di legittimità, che ha deciso in merito:
- alla compravendita di un immobile sito in Italia stipulata negli Stati Uniti con scrittura privata autenticata da notary public da cui risultava che una delle firme era stata apposta mediante aiuto da parte di un terzo;
- al testamento non conforme, sul piano formale, alla legge italiana, ma conforme a quella americana];
- alla procura a vendere immobili autenticata da notaio inglese, carente in punto di identificazione del sottoscrittore;
- al matrimonio contratto all’estero, cui non sono stati ritenuti applicabili i requisiti formali (pubblicazioni e trascrizione negli atti dello stato civile), previsti dalla legge italiana.
In tutti questi casi giurisprudenziali i documenti provenienti dall’estero sono stati considerati idonei, pur non essendo, all’evidenza, dotati delle caratteristiche richieste dai sostenitori del principio di equivalenza.
Anche il Regolamento (CE) n. 805/04 del Parlamento Europeo, che istituisce il titolo esecutivo europeo, secondo questa dottrina, costituirebbe ulteriore prova della fondatezza della tesi, in quanto esso si riferisce all’atto pubblico come qualsiasi documento la cui autenticità sia stata attestata da un’autorità pubblica o da altra autorità a ciò autorizzata dallo Stato membro d’origine. Ritenere di escludere da tale definizione alcuni documenti in quanto privi delle caratteristiche necessarie affinché essi rispettino il principio di equivalenza, costituirebbe, secondo l’autore, violazione del regolamento stesso.
Qualunque opinione si segua in merito ai requisiti che deve avere l’atto estero per essere definito autentico ai fini della pubblicità, è indubbio, inoltre, che il controllo notarile dovrà avere a oggetto anche la verifica del rispetto delle norme interne in materia di circolazione degli immobili (terreni e fabbricati).
Queste norme, infatti, sono da ritenersi di applicazione necessaria e concernono le c.d. formalità intrinseche dell’atto, che fanno parte del contenuto formale e, quindi, della sostanza dell’atto.
Di fronte a un atto estero di trust portante trasferimento al trustee di beni immobili siti in Italia, carente delle menzioni e/o allegazioni previste da tali norme a pena di nullità, il notaio che riceve l’atto dovrà verificare se si tratta di vizi cui non è possibile porre rimedio, neanche rinnovando l’atto (ad esempio qualora il bene fosse assolutamente incommerciabile) oppure se si tratta di meri vizi formali, cui è possibile rimediare integrando e adeguando l’atto in sede di deposito, mediante rinnovazione ovvero, se consentito dalla legge, conferma dell’atto nullo.
In questo caso si ritiene che il notaio perfezionerà un atto complesso, composto dall’atto estero ancora inefficace all’uso cui in Italia è destinato, e dal verbale di deposito, corredato delle necessarie integrazioni e degli adeguamenti documentali, atti a rimediare agli eventuali vizi e ad attribuirgli la sostanziale efficacia.
Nel caso c), infine, il trustee di un trust estero interviene in atto notarile, di regola per acquistare o alienare beni, o comunque compiere qualsiasi atto relativo ai beni in trust.
Dal punto di vista del notaio si è già rilevato come egli abbia l’obbligo di accettare l’incarico ex art. 11 della Convenzione
I problemi che il notaio deve affrontare riguardano principalmente la verifica della legittimazione a disporre da parte del trustee e, prima ancora, che il soggetto che interviene in atto sia effettivamente titolare dell’ufficio.
Questo problema è di facile soluzione nel caso in cui il trustee intervenga in atto per alienare un bene in trust che costituisce oggetto di pubblicità. In tal caso il presupposto soggettivo è dato dall’esistenza della intestazione del bene in capo al trustee nei registri immobiliari o nel registro delle imprese. Qualora tale intestazione manchi in ragione del fatto che vi è stato un mutamento nella titolarità dell’ufficio il notaio dovrà pretendere la “regolarizzazione” dell’intestazione. Occorrerà quindi trascrivere nei registri immobiliari o iscrivere nel registro delle imprese l’atto di nomina del nuovo trustee; e tale atto dovrà ovviamente avere la forma richiesta dalla legge italiana per essere iscritto nei pubblici registri.
Più complessa potrebbe essere la situazione nel caso in cui il trustee intenda acquistare un bene. Occorre chiedersi se, in questo caso, il notaio si possa accontentare della mera dichiarazione del soggetto che interviene in atto di essere trustee di quello specifico trust oppure debba pretendere l’esibizione di documentazione da cui risulti che il trustee è munito di idonei poteri per la stipulazione dell’atto.
Il controllo va suddiviso in due fasi:
a) la verifica della titolarità dell’ufficio in capo al trustee;
b) la verifica dei poteri in capo al trustee.
Quanto alla prima verifica, i problemi maggiori possono sorgere qualora il trust sia regolato da una legge che non prevede forme di pubblicità della sua esistenza e, conseguentemente, dei mutamenti del soggetto titolare dell’ufficio di trustee.
La situazione che si presenta al notaio è del tutto simile a quella che deve affrontare nel caso di intervento in atto di rappresentanti di enti societari aventi sede in paesi che non prevedono forme di pubblicità dotate di affidabilità commisurabile a quella del nostro registro delle imprese.
Il trustee dovrà quindi fornire il documento probatorio della sua qualità, che il notaio dovrà valutare tenendo presente che ciò che conta è la valenza concettuale della documentazione e non i modi della sua manifestazione, legati alle specificità dei vari sistemi legali.
Una volta conclusa la verifica della titolarità dell’ufficio in capo al trustee, occorrerà svolgere la seconda fase, relativa all’individuazione dei suoi poteri.
Viene immediatamente in considerazione, nella fattispecie, la questione dell’applicabilità al trustee dell’art. 54 r. not., a norma del quale «I notari non possono rogare contratti nei quali intervengano persone che non siano assistite od autorizzate in quel modo che è dalla legge espressamente stabilito, affinché esse possano in nome proprio od in quello dei loro rappresentanti giuridicamente obbligarsi».
Tradizionalmente la norma è stata ritenuta applicabile ai soli casi di rappresentanza e assistenza di soggetti incapaci o semi-incapaci; tuttavia è diffusa la tesi estensiva, che la ritiene applicabile anche ai casi di rappresentanza organica e volontaria.
Sulla base della qualificazione della posizione del trustee come soggetto proprietario dei beni, sebbene nell’interesse altrui, la norma non dovrebbe trovare applicazione. Non sono quindi applicabili al trustee le norme previste in tema di procura o mandato e, a valle, la regola dell’art. 54 r. not.
Se ciò è vero in linea di principio, non è men vero che l’art. 54 r. not. è norma che costituisce un punto di riferimento generale per tutte le ipotesi in cui siano coinvolte questioni di legittimazione a disporre (in linea, del resto, con la tesi prevalente).
Pertanto, al di là delle ipotesi in cui un soggetto interviene in atto notarile senza disvelare la sua qualità di trustee, negli altri casi, qualora cioè tale soggetto si presenti di fronte al notaio quale trustee di uno specifico trust, potrebbe trovare applicazione l’art. 54 r. not., sia pure con alcune precisazioni.
È vero infatti che il trustee è proprietario dei beni e quindi, come già detto, in linea di principio dovrebbe agire senza dovere giustificare i propri poteri (salvo eventualmente dare prova di essere il trustee in carica in quel momento), al fine di evitare che gli eventuali limiti costituiscano un vincolo alla circolazione dei beni; tuttavia, tenuto conto del fatto che la qualità di trustee implica la titolarità di un ufficio in virtù del quale la proprietà di cui egli è titolare deve essere gestita in modo da soddisfare un interesse di soggetti terzi (nel caso di trust con beneficiari) o comunque un interesse che trascende la sfera giuridica personale del trustee (nel caso di trust di scopo), il notaio non può trascurare che il trustee è un proprietario che ha il potere di scambiare ricchezza ma non di distruggerla, con tutte le relative conseguenze con riferimento all’art. 54 r. not.
Può inoltre aggiungersi che non si tratta di valutare soltanto la posizione del trustee ma anche quella dei terzi che con lui contrattano.
In linea generale le limitazioni ai poteri del trustee contenute nell’atto istitutivo di trust non saranno opponibili al terzo acquirente a titolo oneroso di buona fede, ma resterà ferma la responsabilità del trustee secondo la legge regolatrice.
Tenuto conto che molto spesso gli atti istitutivi di trust contengono clausole che variamente condizionano la “competenza” del trustee, anche indicando operazioni non implicanti responsabilità, è sicuramente da approfondire il ruolo che in tale vicenda debba svolgere il notaio, nel caso in cui il trustee abbia disvelato la propria qualità o il vincolo in trust risulti “rivelato” per il bene oggetto dell’atto, dal momento che al trustee, come chiarito, non possono applicarsi le norme in tema di rappresentanza, né volontaria né organica.
Daniele Muritano

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