Trust e problemi applicativi



1 - Trust interno e giurisprudenza italiana.

Di trust, com'è noto, si inizia a parlare in Italia a seguito della ratifica della Convenzione de L'Aja del 1985 sulla legge applicabile ai trusts e al loro riconoscimento, entrata in vigore il 1° gennaio 1992.
A una prima fase di studi e di decisioni giurisprudenziali aventi a oggetto la compatibilità dell'istituto in sè considerato con il nostro ordinamento, preceduti peraltro da studi risalenti, quali quello di Franceschelli del 1935 o di Libonati su Holding e investment trust del 1969, seguono, a partire dalla fine degli anni '90, una sterminata letteratura giuridica, che ha reso l'Italia il paese di civil law più profilico in materia di studi sul trust, anche per merito – va riconosciuto - della classe notarile, impegnata in prima linea nell'applicazione dell'istituto, e una copiosa giurisprudenza, costituita – se non ho contato male - da 103 provvedimenti in materia civile e penale, al netto della pronunce in materia tributaria, che sono anch'esse numerose.
Tutto questo nasce, va precisato, a seguito della prospettazione della tesi che ritiene ammissibile nell'ordinamento italiano il trust c.d. interno, intendendosi per tale, com’è noto, il trust che è fonte di un rapporto giuridico i cui “elementi significativi” (per tali dovendosi intendere sia - com’è pacifico - il luogo in cui i beni sono ubicati e quello in cui lo scopo del trust deve essere perseguito, sia – come parrebbe affermare la tesi prevalente - la cittadinanza e residenza del disponente e dei beneficiari) sono localizzati all’interno del nostro ordinamento e i cui unici elementi di internazionalità sono quindi costituiti: a) indefettibilmente, dalla legge regolatrice del trust (essendo quest’ultima – per definizione – una legge straniera); b) eventualmente, anche dal luogo di amministrazione del trust e da quello di residenza abituale del trustee.
La giurisprudenza, in verità, si è poche volte pronunciata ex professo in materia di ammissibilità del trust interno. Quando lo ha fatto ha prevalentemente dato risposta positiva, più raramente ne ha negato l'ammissibilità, talvolta con argomentazioni fantasiose (ricordo a tal proposito una sentenza del tribunale di Napoli in materia di trust autodichiarato, che ne argomentava l'inammissibilità adducendo quale argomento l'esistenza di una proposta di legge che, appunto, non lo prevedeva).
E' tuttora assente una pronuncia della Corte di Cassazione sul tema, non potendo essere considerate tali nè la sentenza della Cassazione Penale del 2004, in quanto chiamata a pronunciarsi non sul trust interno ma sulla legittimità del sequestro preventivo di beni in trust, nè la sentenza della Cassazione Civile del 2008, in quanto avente a oggetto una vicenda relativa a un trust non interno.
La giurisprudenza degli ultimi anni, in definitiva, nonostante l'assenza, appunto, di una pronuncia della Suprema Corte, decide in materia di trust interno dandone per scontata la legittimità. Le questioni che i giudici si trovano ad affrontare sono sempre più spesso relative al “funzionamento” e agli effetti del trust. E si interviene con particolare rigore di fronte a fattispecie di uso scorretto del trust, come testimoniano i vari provvedimenti che, di fronte a trust palesemente istituiti in danno dei creditori, ne hanno dichiarato la nullità o l'inefficacia o hanno disposto il sequestro conservativo dei beni. Tale giurisprudenza è indice della necessità di un approccio prudente e avveduto ai problemi posti dall'istituto. Particolare vivacità mostra, infine, la giurisprudenza, riguardo ai trust istituiti da parte o in favore di soggetti privi di autonomia (incapaci o diversamente abili), che costituiscono un terreno di vera e propria sfida del trust agli istituti previsti dal nostro ordinamento, ancora legati al sistema delle autorizzazioni per singoli atti, che inizia a mostrare una certa sofferenza.
Non v'è dubbio, inoltre, che un ruolo fondamentale nello sviluppo della possibilità applicative del trust interno, è stato svolto anche dalla prassi professionale, da considerarsi ormai, con dottrina e giurisprudenza, tra i veri e propri formanti del diritto. E tale prassi ha in qualche modo "accompagnato" la giurisprudenza, diffondendo il trust sotto il profilo culturale e contribuendo grandemente a renderlo un istituti ormai socialmente accettato, idoneo a tutelare interessi di rilevanza anche costituzionale, quali la famiglia e i figli.
E tanto è vero questo, che il nostro legislatore non ha potuto non prendere atto dell'esigenza di dotarsi di un istituto, se non identico, del tutto similare al trust. E' noto infatti che il progetto di legge comunitaria per il 2010 prevede l'introduzione del contratto di fiducia, definito dall'art. 1, comma 6, del d.d.l. come “contratto con cui il fiduciante trasferisce diritti, beni o somme di denaro specificamente individuati in forma di patrimonio separato ad un fiduciario che li amministra, secondo uno scopo determinato, anche nell’interesse di uno o più beneficiari determinati o determinabili”. Ma questa è un'altra storia, del quale chissà se mai vedremo la fine...
Nonostante il quadro favorevole fin qui sommariamente tratteggiato esistono tuttora controversie in merito all'ammissibilità del trust, non solo interno, prevalentemente fondate sull'incompatibilità tra l'istituto e il principio generale della responsabilità patrimoniale del debitore, che com'è noto si ricava dall'art. 2740 c.c. Questa è, tuttora, l'obiezione più seria.
Ora, è vero che esiste tutta una serie di fattispecie, previste sia dal codice civile che da leggi speciali, che hanno introdotto deroghe alla regola generale dell'art. 2740 c.c., da taluno ancora qualificata come norma di ordine pubblico. Da ciò si è ricavata da molti l'idea che il principio della responsabilità patrimoniale del debitore sia stato ormai svuotato di contenuto, quasi che l'art. 2740 c.c., sia stato tacitamente abrogato. Mi pare una forzatura, altrimenti non si spiegherebbe come mai il legislatore abbia dovuto introdurre fattispecie di separazione patrimoniale con leggi specifiche.
La compatibilità deve essere invece dimostrata attraverso argomenti più consistenti, cui cercherò di accennare brevemente.
Il primo è un argomento che potremmo definire "logico". La separazione patrimoniale appartiene all'essenza stessa del trust e pertanto, se tale effetto fosse del tutto incompatibile con il nostro ordinamento giuridico, l'Italia ratificando la Convenzione, avrebbe emanato una legge contraria all'ordine pubblico.
Il secondo argomento si fonda sulla particolare natura della Convenzione de L'Aja, che secondo la più parte degli autori non contiene solo norme di conflitto, come tutte le convenzioni di diritto internazionale privato, ma anche norme di diritto sostanziale uniforme, tra cui l'art. 11, che detta le conseguenze minime che il riconoscimento di un trust implica, fra cui – appunto - la separazione patrimoniale. Tale norma, pertanto, impone (per ammissione unanime) che, ad esempio, i beni situati in Italia di un trust regolato dalla legge inglese e con beneficiari inglesi siano sottoposti al regime previsto dall'art. 11 della Convenzione, che non può perciò dirsi contrario al nostro ordinamento.
Ecco quindi che l'art. 11 diviene la norma – richiesta dall'art. 2740, comma 2, che legittima la limitazione di responsabilità in deroga al disposto dell'art. 2740, comma 1. Una volta ammessa la legittimità dei trust interni ne consegue la legittimità della separazione patrimoniale, derivante anche per essi dall'art. 11, poiché anche a tali trust si applica la Convenzione.
Si può però giungere alle stesse conclusioni sulla base dell'interpretazione sistematica dello stesso art. 2740, analizzato da due diversi angoli visuali, del disponente e del trustee.
Dal lato del disponente il richiamo all'art. 2740 c.c., almeno con riferimento ai trust con trasferimento di beni al trustee, non pare invero del tutto corretto. Dal punto di vista tecnico, infatti, la limitazione di responsabilità si ha (come osservava già Nicolò nel 1954) quando una certa categoria di beni appartenenti al debitore è sottratta all'azione esecutiva di tutti o di alcuni dei suoi creditori. Nel caso del trust con trasferimento di beni, allora, non sembra porsi, rispetto al disponente, un problema di violazione dell'art. 2740 c.c. nascente dal solo fatto che egli ha trasferito i beni al trustee. Rispetto a tale evenienza i suoi creditori non possono lamentare la violazione dell'art. 2740 c.c., quanto piuttosto, ove ne ricorrano i presupposti, esercitare l'azione revocatoria per rendere inefficaci nei loro confronti i trasferimenti al trustee.
Dal lato del trustee, invece, c'è sì appartenenza dei beni ma è un'appartenenza "qualificata". Egli è, appunto trustee, e come tale è gravato da obbligazioni nei confronti dei beneficiari. E' vero quindi che da tale angolo visuale sembra aversi una limitazione di responsabilità in senso tecnico, perché i creditori personali del trustee non possono aggredire i beni in trust. Ma costoro in realtà non possono farlo (sostenendo che tali beni sono di proprietà del trustee e che non è loro opponibile il trust) in quanto tali beni sono pervenuti nel patrimonio del trustee con un vincolo di destinazione e quindi non sono beni "suoi", ai sensi dell’art. 2740, in quanto egli deve disporne secondo quanto previsto dall'atto di trust.
Pertanto, come già riconosciuto dalla dottrina (quarant'anni fa Jaeger; più di recente Graziadei, Gambaro, Lupoi), il principio dell'art. 2740 c.c. è del tutto neutro ai fini della soluzione della questione. Sarebbe quanto mai arbitrario leggere nel termine "i suoi beni", riferito al debitore, un richiamo alla nozione civilistica di proprietà; laddove il concetto di patrimonio, implicitamente presente nella norma, deve essere precisato e riempito di contenuto.
Il passo ulteriore (e un tentativo in tal senso è stato fatto da chi – Lupoi - ha teorizzato i negozi di affidamento fiduciario) dovrebbe essere riconoscere l’effetto di separazione patrimoniale anche in fattispecie diverse dal trust ma strutturate in modo del tutto simile. Chi ha teorizzato i negozi di affidamento fiduciario, in cui il trasferimento al fiduciario è palese, propone una ricostruzione del fenomeno tale che il bene trasferito al fiduciario (che non sarebbe il fiduciario della classica fiducia romanistica ma un soggetto che svolge funzioni molto simili se non identiche a quelle del trustee) è separato dal patrimonio di quest’ultimo, con gli stessi effetti propri del trust. Naturalmente si tratta di una disquisizione teorica, probabilmente non priva di punti di debolezza, tanto è vero che tale dottrina ritiene necessario, per rafforzare l'effetto di separazione patrimoniale, l'apposizione del vincolo di destinazione ai sensi dell'art. 2645-ter, c.c. o rinviare, per individuarne la disciplina, a una legge regolatrice diversa da quella italiana, che prevede la figura (per esempio la legge della Repubblica di San Marino), applicabile per il tramite della Convenzione de L’Aja, il cui art. 2 ricomprenderebbe anche i negozi di affidamento fiduciario.
Questo tentativo non è peraltro nuovo, atteso che esso sviluppa una posizione dottrinale che già anni fa aveva teorizzato l'ammissibilità di una destinazione di beni in funzione della realizzazione di finalità selezionate dai privati, a fronte dell'opinione, allora prevalente, secondo cui invece solo il legislatore potrebbe precostituire le tecniche utilizzabili per realizzare la separazione patrimoniale e individuare gli interessi da perseguirsi.
Il ragionamento appena svolto vale, con i dovuti adattamenti, anche per il rust autodichiarato, in cui, com'è noto, le figure del disponente e del trustee coincidono. In questo caso l'istituzione del trust realizza una limitazione di responsabilità in senso tecnico perché beni appartenenti al disponente, immediatamente dopo l'istituzione del trust continuano ad appartenergli: però gli appartengono in qualità di trustee, cioè ancora una volta affetti da un vincolo di destinazione.
La figura del trust autodichiarato pone in realtà problemi diversi, relativi all'effettività dell'istituzione del trust e al “controllo” dei relativi beni, questione che va risolta soprattutto analizzando il contegno del disponente successivo all'istituzione del trust.

2 – Separazione patrimoniale e causa dell'attribuzione
Si è detto che la separazione patrimoniale è effetto caratteristico del trust il che sembra implicare che la ragione giustificativa dell'istituzione del trust debba essere qualcosa di diverso dal mero intendimento di ottenere la separazione.
La questione è se un trust che abbia come unica ragione giustificativa la separazione patrimoniale sia o meno valido.
Questo problema si pone con particolare riguardo ai trust liberali istituiti da incapaci, che di regola prevedono quale unico beneficiario l'incapace stesso, argomento che verrà trattato nel successivo paragrafo.
Rispetto ai trust con beneficiari diversi dal disponente (o anche in aggiunta a esso) il problema dell'identificazione della separazione patrimoniale con la ragione giustificativa va analizzato sotto una prospettiva diversa e, probabilmente, è un falso problema.
Buona parte di tali trust è infatti apprezzabile, come può facilmente essere verificato dall'analisi della prassi, come liberalità non donativa in favore dei beneficiari. La separazione patrimoniale, in trust del genere, è evidentemente funzionale alla realizzazione dell'interesse che ha mosso il disponente a istituire il trust.
E' certo possibile che il disponente sia stato mosso a istituire il trust dal mero interesse di separare il proprio patrimonio e che quindi il trust, a dispetto di ciò che emerge dall'atto istitutivo, sia affatto finalizzato a realizzare una liberalità in favore dei beneficiari. Ma non si tratterà, allora, di verificare se la separazione patrimoniale possa in sé costituire l'unica ragione giustificativa del trust, bensì di vedere se, a monte, vi sia stata reale volontà di istituire il trust.
L'intera vicenda giuridica, per esempio, potrebbe essere simulata, oppure il trustee potrebbe non avere in realtà assunto il controllo dei beni, con conseguente non riconoscibilità del trust o, ancora, il contegno successivo delle parti potrebbe essere tale da far ritenere il trust un mero simulacro e quindi "sham", cioè "fasullo".
Con una conseguenza non di poco conto, perché altro è l'azione revocatoria, dei cui effetti beneficia solo il creditore che l'ha proposta, altro è l'azione di nullità, che determina il rientro di tutti i beni nel patrimonio del debitore, aprendo così il concorso su detti beni a vantaggio di tutti i creditori, anche di coloro che si erano disinteressati del comprtamento del loro debitore.
L'analisi della giurisprudenza mostra come trust istituiti per frodare le ragioni creditorie siano stati tutti dichiarati inefficaci.

3. - Incapaci e trust.
I trust istituiti da incapaci, come già detto, di regola prevedono quale unico beneficiario l'incapace stesso e la ragione discende dal fatto che la nomina di beneficiari ulteriori da parte del disponente incapace sembra urtare – qualora il trust venga qualificato come liberale - contro i principi in tema di capacità di donare ritenuti applicabili anche alle donazioni indirette.
Si può affrontare il problema della validità di tali trust adottando la prospettiva "tradizionale", che distingue appunto tra causa ed effetto: in un trust del quale l’unico beneficiario sia l’incapace stesso (trust che sarà destinato, normalmente, a durare fino alla sua morte ovvero fino all’eventuale cessazione della sua incapacità), appare dubbio rinvenire una "causa" che possa utilmente distinguersi dall’effetto tipico di qualunque trust, cioè dall’attuazione di un meccanismo di separazione patrimoniale.
Né parrebbe possibile obiettare che, in tali casi, la causa del negozio è data dalla protezione del patrimonio dell’incapace, poiché quest’ultimo è già protetto dagli istituti della rappresentanza o assistenza legale: se è vero, infatti, che in questi casi il trust appresta un meccanismo di protezione ulteriore (dato appunto dalla separazione patrimoniale), appare dubbio che l’istituzione di un trust possa trovare giustificazione nel mero intento di creare detta separazione, sì che non può escludersi la nullità di un trust del genere.
Si può replicare adottando invece una prospettiva "funzionale", che valorizzi la particolare meritevolezza di tutela dell’interesse sotteso a una siffatta operazione, volta a realizzare, attraverso l'utilizzazione del trust, una maggiore tutela delle persone prive di autonomia. Il trust, in altri termini, potrebbe essere visto come misura alternativa agli ordinari istituti di protezione laddove esso si giustifichi in termini di adeguatezza e proporzionalità rispetto alle esigenze del soggetto da proteggere.
In ogni caso, anche ammettendo la validità di tali trust, l'utilità del ricorso al trust quale mezzo di protezione del patrimonio si riduce, perché nel caso in cui il disponente è l'unico beneficiario del trust, i creditori possono aggredire la posizione beneficiaria.
Un ulteriore problema che pongono i trust istituiti da incapaci concerne la validità della nomina del beneficiario ulteriore (finale o residuale)
Se, infatti, la nomina del beneficiario ulteriore è apprezzabile come liberalità – sia pure indiretta - in suo favore, si potrebbero ritenere applicabili alla fattispecie le norme dettate in tema di capacità a donare per le donazioni dirette, che vietano agli incapaci di donare, con conseguente nullità della clausola e, se del caso, dell'intero trust.
Il tentativo di superare tale limite si fonda o sulla qualificazione di siffatti trust come solutori ovvero sull'individuazione di una causa di essi definita come "familiare", non riconducibile nè alla causa solutoria nè a quella donativa.
La prima tesi prospetta l'esclusione della natura liberale considerando l'attribuzione in favore di un beneficiario ulteriore, di regola il figlio del disponente, come avente natura “solutoria”, in quanto funzionale al suo mantenimento.
Tale conclusione parrebbe condivisibile, però, solo nel caso in cui le prestazioni del trustee consistano effettivamente nel mantenimento e abbiano, altresì, inizio e fine mentre è in vita il disponente.
Secondo il nostro diritto infatti:
a) l’obbligo di mantenimento sussiste a carico del genitore-disponente solo finché quest’ultimo sia in vita, sì che dopo la sua morte appare difficile escludere la natura liberale dell’attribuzione;
b) se è vero che esistono norme che dichiarano esenti da collazione e da riduzione le “spese di mantenimento”, e da esse si ricava la natura non liberale di attribuzioni del genere, non è men vero che le spese cui tali norme si riferiscono non si limitano ad aver fonte in un atto inter vivos, ma sono state altresì materialmente effettuate dal de cuius durante la propria vita.
Ne discende che, laddove il trust prevedesse attribuzioni in favore di un figlio le quali, pur se non eccedenti la misura di quanto necessita per il mantenimento del beneficiario, siano destinate a protrarsi anche dopo la morte del disponente, sarebbe difficile escluderne la natura liberale e, con essa, l’invalidità della correlata donazione indiretta effettuata dal disponente incapace.
La seconda opinione, invece, individua la causa "familiare" in tutti quegli atti attributivi in ambito familiare dettati da “spinte affettive” che non consentirebbero di inquadrarli all'interno della rigida classificazione tra causa donativa e causa solutoria.
E' un tentativo non nuovo, atteso che taluni autori hanno cercato di valutare in quest'ottica, ad esempio, il fondo patrimoniale, per escludere che esso possa essere aggredito con l'azione revocatoria ordinaria o fallimentare. Analogamente, alla causa" familiare" taluni autori riconducono le fattispecie traslative poste in essere tra coniugi in sede di crisi coniugale.
L'idea di individuare in siffatti trust una causa diversa da quella liberale è certamente apprezzabile e degna di approfondimento, ma non deve essere una sorta di “cavallo di Troia” attraverso cui violare norme imperative. L'individuazione, nel caso concreto, di una causa gratuita ma non liberale deve quindi essere svolta con avvedutezza e prudenza. E la stessa dottrina che propone tale soluzione ammette che se è vero che l'interesse familiare potrebbe escludere l'esistenza della donazione, non è men vero che il limite oltre il quale scatta la donazione dipende dalle circostanze del caso concreto.
Su questi temi segnalo che si è di recente pronunciato il tribunale di Rimini, con provvedimento del 21 agosto 2010, sia pure senza l'approfondimento che la vicenda avrebbe meritato.
Questo provvedimento in realtà si pone a valle di una vicenda che inizia con la richiesta di autorizzazione al g.t. da parte dell’a.d.s. di una persona totalmente incapace per l’istituzione di un trust. Il g.t. autorizzava l’istituzione del trust con apporto della somma di 10.000 euro. Successivamente l’a.d.s. chiedeva al tribunale, ai sensi dell’art. 747 c.p.c., di essere autorizzato ad apportare al trust beni immobili pervenuti per successione al beneficiario dell’a.d.s.
Il tribunale si trova a dover assumere il provvedimento avendo di fronte il parere favorevole del g.t. e il parere contrario del p.m.
Il g.t. esprime parere favorevole «stante la segregazione del patrimonio del beneficiario»; sembra quindi ritenere un “valore aggiunto” l’effetto di separazione patrimoniale, senza tuttavia diffondersi ulteriormente sul punto.
Il p.m. invece esprime parere negativo, ritenendo che gli scopi indicati nel ricorso sono raggiungibili anche con l’a.d.s., senza necessità di trasferire la proprietà dei beni al trustee, così implicitamente aderendo alla tesi appena esposta circa la superfluità del ricorso al trust che vede l’incapace quale unico beneficiario dello stesso. Anche il p.m., però, non approfondisce la propria posizione.
Il tribunale rigetta il ricorso fondando la decisione, in buona sostanza, su due disposizioni contenute nell’atto istitutivo, ritenute illegittime.
Poiché il trustee, dice il tribunale, non deve chiedere alcuna autorizzazione per il compimento di atti di amministrazione dei beni in trust, la clausola contrasta con le inderogabili disposizioni di legge in materia di tutela degli incapaci, in quanto volta a sottrarre ai competenti organi giurisdizionali il controllo sulle effettive condizioni di vita del beneficiario (in particolare sulla qualità e natura dell’assistenza che gli viene prestata in caso di aggravamento delle sue condizioni di salute) nonché sulla gestione patrimoniale dei beni in trust e sul compimento dei principali atti di straordinaria amministrazione.
Questa affermazione, sulla cui fondatezza si potrebbe discutere a lungo, non pare tenere nel giusto conto il dibattito dottrinale relativo alla necessità o meno per il trustee di richiedere le autorizzazioni giudiziali per il compimento di atti di straordinaria amministrazione dei beni in trust.
Il trust prevede inoltre che beneficiari finali del trust siano i figli del disponente ovvero le persone nominate dal disponente medesimo con testamento o con atto autentico ovvero le persone nominate da altro soggetto cui il disponente abbia attribuito il relativo potere con atto autentico.
Il tribunale ritiene che la designazione dei beneficiari a mezzo di semplici scritture private autenticate contrasti con i principi dell'ordinamento in materia di tutela della libera volontà negli atti gratuiti e mortis causa.
Tale parte del provvedimento è criticabile, se non nella conclusione cui giunge, probabilmente condivisibile alla luce di quanto finora affermato, quantomeno in punto di motivazione, redatta in modo alquanto sbrigativo.
Manca del tutto, infatti, l'analisi dell'atto istitutivo di trust in punto di individuazione della sua ragione giustificativa con riguardo al trasferimento finale ai beneficiari, che il tribunale sembra – ma solo implicitamente - ricondurre alla liberalità.

4 - I trust liquidatori
I trust liquidatori, a quanto pare istituiti in gran numero, pongono diversi problemi, cui in questa sede è solo possibile accennare.
In primo luogo va segnalato che tali trust sono stati già oggetto di decisioni giurisprudenziali. Ricordo il tribunale di Milano, che sulla stessa vicenda si è pronunciato ben cinque volte, il tribunale di Milano, sez. dist. di Legnano, il tribunale di Alessandria.
Di queste pronunce sono degne di rilevanza, per la ricchezza delle argomentazioni poste a sostegno della decisione quelle del tribunale di Milano e, in particolare, la prima decisione, i cui contenuti sono ripresi, quasi letteralmente, dalle successive.
Questa giurisprudenza, in particolare, distingue a seconda che il trust sia istituito da un'impresa che si trovi o non si trovi in stato di insolvenza.
Nel primo caso il trust è stato ritenuto nullo, mentre nel secondo caso il giudice ha ritenuto che, qualora successivamente all'istituzione del trust venga dichiarato il fallimento dell'impresa, il trust si sciolga.
Il giudice argomenta, nel primo caso, dalla violazione dell'art. 15, lett. e) Conv., che fa salve le norme inderogabili in materia di protezione dei creditori in caso di insolvenza. Il trust si atteggerebbe allora come procedura liquidatoria alternativa alla procedura concorsuale, in contrasto, appunto, con le norme della legge fallimentare italiana, per cui il trust sarebbe fin dall'origine nullo e non riconoscibile.
Per quanto concerne invece il trust istituito da impresa non ancora insolvente, il giudice ha ritenuto che l'effetto di separazione patrimoniale e l'affidamento dell'azienda al trustee impedirebbero, in caso di successivo fallimento, l'esplicarsi della procedura concorsuale. Il curatore avrebbe infatti a disposizione solo un'azione di rendiconto nei confronti del trustee, salvo l'esercizio dell'azione revocatoria. Rispetto a tale trust, allora, il fallimento si porrebbe come causa sopravvenuta di "scioglimento", trattandosi di fattispecie la cui prosecuzione è incompatibile con la dichiarazione di fallimento. Tale argomentazione invero non appare convincente, per ragioni inerenti alla natura e agli effetti stessi del trust. Una volta trasferiti i beni al trustee, infatti, essi non appartengono più all'impresa disponente, per cui non si vede come il fallimento, vicenda riguardante il disponente, possa influire sulla sorte del trust. Nè sembrano applicabili l'art. 78 l. fall., in materia di mandato, attesa la strutturale diversità tra i due istituti, o l'art 72 l. fall., che disciplina la sorte dei rapporti pendenti, atteso che nel caso del trust da un lato il rapporto non può dirsi "pendente" con riferimento alla posizione del disponente e, dall'altro, che lo sciogimento non è ammesso nei contratti a effetti reali quando è già avvenuto il trasferimento del diritto.
Con riguardo ai trust c.d. liquidatori si impongono tuttavia ulteriori considerazioni, di ordine più generale, su cui occorre svolgere un'attenta riflessione.
In primo luogo, dalla lettura di taluni di tali atti, si ricava che essi talvolta hanno ad oggetto l'intero patrimonio aziendale e non singoli beni aziendali, con la conseguente traslazione anche dei rapporti patrimoniali passivi in capo al trustee e ai successivi acquirenti da questi. Se, pertanto, l'obiettivo del trust è, tra l'altro, "isolare" i beni rispetto all'aggressione dei creditori aziendali, trasferire al trustee l'intera azienda non pare essere del tutto confacente allo scopo. Nè, d'altra parte, pare aver pregio la clausola, letta in alcuni atti istitutivi, che prevede che qualora uno dei creditori/beneficiari agisca sui beni aziendali perde la qualifica di beneficiario del trust!
I trust liquidatori vengono inoltre qualificati come trust c.d. di scopo che, com'è noto, sono i trust che non prevedono beneficiari.
Tale inquadramento, in verità, appare dubbio, essendo invece più fondatamente sostenibile che tali trust invece prevedono i beneficiari, e che tale categoria di soggetti è costituita dai creditori dell'impresa (l'impresa disponente è, infatti, solo beneficiario residuale).
Discende tale inquadramento un importante interrogativo. Occorre infatti chiedersi se, affinchè siffatti trust possano avere effetto, sia o meno necessario il consenso dei beneficiari, cioè, appunto, dei creditori dell'impresa disponente.
Ora, dal punto di vista della legge regolatrice del trust oltre che del nostro diritto, può anche ammettersi che i creditori/beneficiari acquistino ipso iure (cioè senza bisogno di accettazione) la posizione beneficiaria loro attribuita solvendi causa.
Tuttavia occorre considerare che nel nostro ordinamento vige il principio dell'intangibilità della sfera giuridica altrui in mancanza del relativo consenso. La disciplina del contratto a favore di terzo o del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente è significativa al riguardo. In entrambi i casi è data al destinatario della prestazione il diritto di rifiutarla (anche perchè non è detto che essa determini sempre e comunque un vantaggio in chi la riceve, si pensi ai pesi che determina la proprietà di un bene immobile). Inoltre, nel caso del trust liquidatorio è seriamente dubitabile che il creditore dell'impresa riceva un vantaggio dall'istituzione del trust, perchè il trasferimento dei beni al trustee determina la sottrazione di essi all'azione esecutiva e solo all'esito della liquidazione del trust fund il creditore vedrà soddisfatte, se del caso, le proprie ragioni di credito.
Non pare dubbio allora che chiunque fra i creditori/beneficiari possa rinunziare a tale posizione beneficiaria e avviare le azioni cognitive e/o esecutive che egli ritenga opportune, ciò che determina, inevitabilmente, l'inopponibilità a tale creditore della separazione patrimoniale scaturente dal trust.
Per tale ragione, sembra potersi affermare che, affinchè il trust liquidatorio possa concretamente operare e non corra rischi di "instabilità", sia necessaria l'adesione di tutti i creditori.
Quanto alle conseguenza operative, in mancanza di adesione dei creditori, si potrebbe sostenere, ad esempio, che siffatti trust siano caratterizzati da una sorta di impossibilità originaria, con conseguente nullità di essi; ovvero che fino a quando tutti i creditori non aderiscono la fattispecie non si è perfezionata, con conseguente legittimità, da parte di un qualsiasi creditore dissenziente, di promuovere direttamente l'azione esecutiva sui beni in trust; ovvero ancora che nella fattispecie possa operare la presupposizione, per cui il trust è implicitamente sottoposto alla condizione risolutiva della mancata adesione di uno qualsiasi dei creditori.
La cautela, dal punto di vista operativo, è d'obbligo, ed è certamente consigliabile sottoporre tali trust, appunto, alla condizione sospensiva dell'adesione della massa dei creditori ovvero alla condizione risolutiva della loro mancata adesione.
Il pericolo è ancor più serio con riferimento ai trust liquidatori istituiti da imprese in crisi.
Tali trust, se pur appaiono prima facie non lesivi della par condicio creditorum, perchè si mette a disposizione della massa tutto il patrimonio aziendale, senza realizzare preferenze in favore di alcuno e senza occultare beni, in concreto possono condurre a un aggravio dello stato di dissesto, con eventuali riflessi penali in caso di fallimento, sia a carico dell'imprenditore (e degli amministratori in caso di trust istituiti da società) sia - a titolo di concorso – dei professionisti coinvolti. Potrebbe infatti essere contestato il fatto che l'impresa, invece di portare i libri in tribunale, ha, tramite l'istituzione del trust, fatto aumentare il passivo.
Un duplice rischio, quindi: quello della dichiarazione di nullità per violazione delle norme inderogabili in materia di protezione dei creditori, come già affermato dalla giurisprudenza milanese; quello della responsabilità penale.
Per queste ragioni è opportuno che tali trust vengano istituiti nell'ambito della procecura concorsuale, in sede applicativa dei nuovi istituti previsti dalla legge fallimentare e cioè del piano attestato, dell'accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo. L'esenzione dall'azione revocatoria accordata dalla nuova legge agli atti posti in essere dal debitore o da terzi in tale contesto, infatti, dovrebbe valere anche a escludere il rilievo penale di tali condotte in caso di successiva declaratoria di fallimento.

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