La determinazione della misura della indennità di espropriazione nel tempo che precede l'entrata in vigore del t.u. 327/2001



Le modalità di determinazione della misura dell'indennità dovuta a fronte del sacrificio che l'espropriazione comporta hanno conosciuto nel tempo vicende alterne, particolarmente tormentate negli ultimi anni nota1. Gli elementi essenziali della procedura espropriativa possono ancor oggi esser ricondotti alla legislazione del tempo immediatamente successivo all'unità d'Italia, vale a dire alla Legge 20 marzo 1865, n. 2248 relativa all'abolizione del contenzioso amministrativo ed alla Legge 25 giugno 1865, n. 2359. Entrambe adottavano il criterio di fondare la commisurazione dell'indennità di esproprio al valore venale o di mercato del bene espropriato. Successivamente, con la Legge 15 gennaio 1885, n. 2892, detta per il risanamento della Città di Napoli, venne adottato un differente parametro, basato sulla elaborazione della semisomma del cumulo tra il valore venale dei beni ed i fitti che se ne ricavavano nell'arco dell'ultimo decennio.
La Legge 22 ottobre 1971, n. 865, meglio nota come "legge per la casa ", introdusse un criterio di determinazione dell'indennizzo che innovava profondamente la materia. Con essa, infatti, si affermava il principio che il valore di riferimento per determinare le somme da liquidare all'espropriato a titolo di indennizzo non era rappresentato dal valore di mercato dell'immobile, bensì dal valore agricolo medio, (moltiplicato in base a coefficienti determinati) corrispondente al tipo di coltura in atto nell'area da espropriare. Uno speciale incremento rispetto a tale misura era riconosciuto qualora la p.a. ed il privato si accordassero comunque per una cessione volontaria (cfr. art.12 della detta legge 1971/865. In ogni caso non era comunque configurabile un'obbligo della p.a. a contrarre, azionabile ex art. 2932 cod.civ., rimanendo sempre in capo a quest'ultima il potere discrezionale di chiudere il procedimento con un atto autoritativo (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 9990/2014).
L'idea guida era che non fosse dovuto alcun indennizzo per quegli incrementi di valore dell'immobile che non derivassero da attività del proprietario, bensì da fatti sociali. Poichè il valore di un terreno edificatorio è concretamente connesso all'espansione delle aree urbanizzate, alla creazione di una serie di infrastrutture quali vie di comunicazione, insediamenti turistici o industriali, dotazione di servizi quali scuole, ospedali, etc., non sembrava equo che questi elementi, riconducibili all'azione pubblica e riverberantisi favorevolmente sul valore di beni privati, finissero per nuocere alla stessa mano pubblica, tenuta ad indennizzare l'espropriato di un tale plusvalore.
Il nuovo criterio era poi stato confermato, dalla " legge Bucalossi" (Legge 28 gennaio 1977, n. 10), la cui idea ispiratrice di fondo, tra l'altro, era costituita proprio dallo scorporo dello jus aedificandi rispetto alla proprietà del bene, scorporo che avrebbe ancor meglio giustificato il ragionamento posto a base di un indennizzo fondato sul mero valore agricolo.
La Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime tali disposizioni per violazione dell'art. 42, III comma e dell'art. 3 Cost., in quanto la misura dell'indennizzo fissata da quelle leggi sarebbe stata insufficiente e creatrice di sperequazioni.
Più in particolare la Corte Costituzionale, con sentenza 5/80, è giunta ad escludere che il criterio legislativamente adottato potesse prescindere da un "serio ristoro" del danno derivante dall'espropriazione, serio ristoro evidentemente negato qualora l'indennità fosse stata commisurata al mero valore agricolo del terreno, enormemente inferiore rispetto a quello di un suolo edificabile.
Successivamente alla detta pronunzia una normativa transitoria, in materia di indennità di esproprio, venne introdotta dalla Legge 29 luglio 1980, n. 385, che riutilizzò i parametri già dichiarati costituzionalmente illegittimi, ai fini della liquidazione di un acconto, prevedendo la possibilità di conguaglio attraverso la rideterminazione dell'indennizzo sulla base di un'emananda disciplina organica. Venne inoltre riconosciuto il diritto agli interessi legali sulla differenza tra l'indennità originariamente corrisposta e quella definitivamente determinata.
La regolamentazione definitiva della materia doveva essere emanata entro i primi giorni dell'agosto 1981; detto termine venne tuttavia successivamente prorogato fino al 31 dicembre 1983.
La Corte Costituzionale intervenne allora nuovamente con la sentenza 223/83, travolgendo la normativa provvisoria anzidetta, affermando l'inutilizzabilità, per il legislatore, delle norme dichiarate illegittime con la decisione 5/1980. Conseguentemente le espropriazioni vennero assoggettate al regime della commisurazione dell'indennità al valore venale del bene.
Occorre rilevare che, in ogni caso, la Corte costituzionale ha giustamente escluso, dati i fini di interesse generale perseguiti per il tramite dei provvedimenti espropriativi, che il termine indennizzo adoperato dal III comma dell'art. 42 Cost. obblighi a concedere un integrale risarcimento del pregiudizio di carattere economico subito dall'espropriato. Se da un lato non risulta indispensabile ai fini della legittimità dell'indennizzo che esso sia pari al valore venale del bene, la Corte ha tuttavia ritenuto che i criteri di determinazione di esso non possano essere fissati in modo da dar luogo a valori simbolici o irrisori, tali cioè da dare all'indennità il carattere di una mera apparenza.
Ai fini della rispondenza a legge i criteri previsti dalla legge relativamente alla previsione di misure espropriative devono essere tali da garantire un "serio ristoro" del danno subito dal privato in esito all'atto ablativo in cui consiste l'espropriazione.
La Legge 23 luglio 1985, n. 372, sull'ampliamento della tenuta di Castelporziano, nonchè la Legge 15 dicembre 1990, n. 396 (intervenenti per Roma) fecero ancora una volta applicazione, ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio, del criterio introdotto dalla Legge per Napoli 2892/1885, fissando l'indennità medesima come " semisomma tra il valore venale del bene espropriato ed i fitti coacervati nell'ultimo decennio ovvero, in mancanza di fitti, il reddito dominicale rivalutato (cioè tra valore venale e valore di godimento del bene).
La Corte Costituzionale, con la sentenza 216/1990, nuovamente intervenuta sul punto, ebbe modo di ritenere legittimo l'adozione di tale criterio.
In tempi più recenti, in sede di conversione del D.L. dell'11 luglio 1992, n. 333 (avvenuta con la Legge 8 agosto 1992, n. 359 e contenente misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), il Parlamento, con l'art. 5 bis, ha nuovamente disciplinato la materia, rifacendosi ancora al criterio della legge su Napoli nota2. Per di più tale disposizione ha previsto che al risultato venga applicata un' immotivata riduzione del 40 %, venendo altresì a prevedere che questa riduzione non trovi applicazione nel caso in cui, in ogni fase della procedura espropriativa, si pervenga alla cessione volontaria del bene.
In esito all'emanazione di quest'ultima norma, comunque dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte costituzionale (Corte Cost., 283/93) in relazione all'ingiustificata disparità di trattamento di cui meglio in seguito si dirà, (tra coloro che avrebbero potuto fruire della valutazione "piena" optando per la cessione volontaria e coloro ai quali questa possibilità era in fatto preclusa), sono tuttavia rimasti insoluti in via generale i nodi di una materia che avrebbe comunque l'assoluta esigenza di essere integralmente riordinata.
Da ultimo si veda l'ipotizzata (Cass.Civ. Sez.I, 22357/06) questione di illegittimità costituzionale del cit. art. 5 bis per contrasto con gli artt. 111 e 117 Cost., anche in rapporto all'art.6 della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell'uomo). Proprio la contrarietà con la CEDU è alla base dell'ulteriore ordinanza di rimessione della questione al Giudice delle Leggi, essendosi rilevato come il giudice nazionale non possa pervenire alla disapplicazione della norma interna sul presupposto del contrasto della stessa rispetto ai contenuti della CEDU (Cass.Civ. Sez.I, 11887/06). In accoglimento di questa impostazione la Corte Costituzionale si è pronunziata (Corte Cost., 348/07) nel senso della incostituzionalità della norma in esame.
Si badi al fatto che, in concreto, stante l'accavallarsi delle disposizioni e degli interventi della Corte costituzionale, si potevano verificare esiti talora grotteschi: determinata la stima secondo il valore venale (in relazione al cennato vuoto legislativo creato dagli interventi della Corte) è talora accaduto che, stante l'efficacia anche ai giudizi in corso della Legge 359/92 (Cass.Civ. Sez.I, 7314/94) potesse esser nuovamente rideterminata l'indennità in misura conforme a tale legge. Non essendo tuttavia più possibile procedere alla cessione volontaria (in quanto comunque conclusa la procedura di espropriazione essendo unicamente aperta la controversia concernente l'opposizione alla stima dell'indennità) il proprietario si veniva a trovare in concreto in una posizione deteriore (dovendo subire una falcidia del 40%) rispetto a quella di un proprietario che fosse stato espropriato in un tempo successivo, il quale avesse optato per la cessione volontaria.
Di questa ingiustificata disparità di trattamento, ancor più rilevante se si pensi all'aspettativa del proprietario espropriato di essere indennizzato in base al valore venale, stante l'assenza di diversi legittimi criteri di determinazione dell'indennità al tempo in cui l'esproprio venne effettuato, fece appunto giustizia la Corte con la pronunzia 283/93.
Successivamente il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 ha collegato l'importo dell'indennizzo alla valutazione dell'area ai fini dell'imposta comunale sugli immobili. Per l'art. 16 del D.Lgs. 504/92, l'indennità di esproprio aumenta o diminuisce in proporzione all'imposta pagata al Comune dal proprietario prima dell'esproprio. In nessun caso, poi, l'indennità può essere superiore al valore Ici dichiarato.
Tutto quanto detto ha a che fare con i procedimenti ablativi in relazione ai quali la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera da realizzare sia stata emessa nel tempo precedente l'entrata in vigore del nuovo testo unico in materia. A far tempo dal 30 giugno 2003 vige invece la nuova disciplina. Il nuovo T.U. in materia di espropriazione (D.P.R. 327/01) prevede all'art. 32 la regola base secondo la quale, salvi gli specifici criteri previsti dalla legge, l'indennità è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell'accordo di cessione o alla data dell'emanazione del decreto di esproprio, valutando l'incidenza dei vincoli di qualsiasi natura, senza tuttavia considerare gli effetti del vincolo preordinato all'esproprio. Non si deve tener conto delle costruzioni o delle migliorie che siano state realizzate proprio allo scopo di realizzare una maggiore indennità. Come si vede, il criterio generale è quello del valore venale del bene (tenuto conto della reale e concreta situazione di esso: cfr. Cass.Civ. Sez.I, 6491/04), eliminando da un lato gli effetti negativi del vincolo preordinato all'assunzione del provvedimento ablativo, dall'altro non permettendo al proprietario di lucrare relativamente a quegli interventi che fossero stati intrapresi proprio allo scopo di "alzare il prezzo". I successivi artt. 33, 34 , 35 e 36 T.U. disciplinano ulteriori aspetti, quali l'espropriazione parziale, l'individuazione dei soggetti aventi diritto all'indennità nel caso di esistenza di diritti parziari, il regime fiscale dell'indennità. Si parla di espropriazione parziale quando la vicenda ablativa investe soltanto parte di un compendio immobiliare appartenente ad un solo soggetto e connotata da un'omogenea destinazione economica. In questa ipotesi la determinazione dell'indennità si opera in base alla differenza tra il valore dell'intero bene (computato nel tempo che precede la procedura ablativa) ed il valore della porzione rimanente (Cass.Civ. Sez.I, 2812/06).
Un punto nevralgico tocca l'art. 37 T.U., che si riferisce specificamente alla determinazione dell'indennità per l'espropriazione di un'area edificabile. Si pensi al fallimento dei precedenti tentativi del legislatore (con particolare riferimento a quello della c.d. "Legge Bucalossi" 10/77) di scorporare lo jus aedificandi rispetto al diritto di proprietà, sostanzialmente avocandolo alla mano pubblica, ciò che avrebbe comportato evidenti conseguenze in riferimento al valore del terreno, sia pure astrattamente edificabile. Il criterio novellamente adottato si imperniava (prima della modificazione introdotta per effetto della "Finanziaria 2008") sulla somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto rivalutato e moltiplicato per dieci.
Detto importo veniva indi diviso per due e ridotto del 40%, aggiungendosi che tale ultima operazione di decremento non avesse luogo quando siasi concluso il predetto accordo di cessione (cfr. testo originario dell'art. 20 T.U.) tra espropriato ed espropriante, situazione alla quale è equiparato il caso in cui l'accordo fosse stato rifiutato dall'espropriato per fatto imputabile all'espropriante (ciò che avviene quando ex post emerga che l'indennità provvisoria che era stata offerta era inferiore agli otto decimi rispetto a quella determinata in via definitiva).
Come appare evidente il legislatore si era preoccupato di non rendere irrisoria la misura dell'indennità, anche se aveva cercato di temperare significativamente il risultato che sarebbe emerso dalla mera assunzione del valore venale del bene.
Importante è altresì osservare che il "taglio" del 40% dell'indennità che sostanzialmente veniva a punire il proprietario del bene inducendolo ad aderire all'offerta dell'indennità provvisoria non colpiva indiscriminatamente colui che la rifiuta, ma soltanto chi adottasse un tale atteggiamento ingiustificatamente. Infatti la falcidia si applicava solamente se, fatti i debiti calcoli, l'espropriante avesse offerto una cifra più bassa di meno del 20% rispetto a quella successivamente emersa in sede di computo definitivo, il che poteva apparire ragionevole, tenuto conto delle fluttuazioni del valore di mercato.
Pure tali criteri sono stati comunque travolti dalla predetta pronunzia del Giudice delle Leggi, (Corte Cost., 348/07) che si è pronunziato nel senso della contrarietà di siffatto meccanismo sia rispetto all'art.117 Cost., sia con riferimento al "ragionevole legame" con il valore venale coerente con il criterio del "serio ristoro" cui si è sempre ispirata la Corte, sia in relazione alla giurisprudenza comunitaria. I giudici della Consulta si sono spinti fino a parlare di "pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà" per censurare l'arbitrarietà dei criteri legali.
Assai più preoccupante sembrava inoltre il rinvio di cui al V comma dell'art.37 T.U., ai sensi del quale, "i criteri e i requisiti per valutare l'edificabilità di fatto dell'area sono definiti con regolamento da emanare con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti". Appariva evidente la possibilità di introdurre surrettiziamente regole cerebrali, avulse rispetto al dato reale, ciò che non potrebbe non riverberarsi sulla concreta determinazione
dell'indennità.
Gli artt. 38 e 39 del T.U. si occupano della determinazione dell'indennità di un'area legittimamente edificata e dei riflessi dell'esistenza di previsioni urbanistiche su particolari aree comprese in zone edificabili, mentre gli artt.40 , 41 e 42 T.U. assumono in considerazione le aree non edificabili.
Ciò premesso, il legislatore ha preso atto delle decisioni del Giudice delle Leggi e, per effetto dell'entrata in vigore della Legge 24 dicembre 2007, n.244, art.2, comma 89 (c.d. "Finanziaria 2008") ha modificato sostanzialmente i criteri di determinazione dell'indennità di espropriazione, stabilendo in maniera finalmente chiara che, venendo in esame un'area edificabile, essa debba determinarsi nel valore venale del bene, eventualmente ridotto del 25% soltanto quando l'atto ablativo sia finalizzato ad attuare interventi di riforma economico-sociale. Il nuovo testo dell'art.37 del T.U. prescrive inoltre al II comma che, nei casi in cui è stato concluso l'accordo di cessione (o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all'espropriato ovvero perchè a costui è stata offerta un'indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi in quella determinata in via definitiva), l'indennità è aumentata del 10 per cento. Non è irrilevante infine osservare come l'indennità di espropriazione (quand'anche corrisposta quale corrispettivo a fronte della cessione bonaria ovvero quale somma a titolo di risarcimento a fronte di occupazione acquisitiva) è stata assoggettata a tassazione quanto alle plusvalenze realizzate in riferimento al valore originario in carico all'espropriato per effetto della l. 30 dicembre 1991 n.413. L'appllicabilità di tali disposizioni hanno dato non poco filo da torcere agli interpreti in riferimento alle lungaggini intercorrenti tra il tempo dell'acquisizione del bene e quello del pagamento dell'indennità (cfr. Cass. Civ., Sez. Tributaria, 1429/13).

Note

nota1

Cfr. Luciani, Vecchi e nuovi principi in materia di espropriazione e indennizzo, in Giur. cost., 1980; Mazzarolli, Considerazioni sull'indennità di espropriazione alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1980; Sorace, Espropriazione della proprietà e misura dell'indennizzo, Milano, 1974; Bessone, Il privato e l'espropriazione. I principi di diritto sostanziale e criteri di indennizzo, Milano, 1980.
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nota2

Il valore venale deve essere parametrato, per le aree edificabili, secondo l'art. 5 bis del D.L. 333/92, alle possibilità legali di edificazione esistenti al momento dell'apposizione del vincolo preordinato all'espropriazione. E' stato deciso a questo proposito che, a questi fini, si debba tener conto delle previsioni di cui alle variazioni di PRG soltanto quando si traducano in indici medi di fabbricabilità, con l'esclusione di disposizioni attinenti alla collocazione di singole edificazioni o di servizi ed infrastrutture (Cass.Civ. Sez.Unite, 125/01). Questa impostazione è stata sostanzialmente ribadita dalla successiva pronunzia della S.C. sempre a Sezioni Unite (Cass.Civ. Sez.Unite, 173/01; cfr. anche Cass.Civ. Sez.I, 7755/04) che ha sancito la distinzione delle prescrizioni afferenti agli strumenti urbanistici in due categorie: da un lato quelle che, ancorchè riguardanti ambiti territoriali anche ristretti (le c.d. "zone omogenee") possono dirsi "conformative" della proprietà, in quanto intese ad incidere sul regime giuridico dei suoli in dipendenza della allocazione zonale e della relativa destinazione; dall'altro quelle che non riguardino l'intera zona, ma vengano a porre prescrizioni limitative riguardanti un unico bene.
L'essenziale natura ablativa ed espropriativa di queste ultime prescrizioni (spesso introdotte con apposita variante) rendono necessaria una valutazione della situazione edificatoria del bene espropriato, ai fini della determinazione dell'indennizzo, nel tempo che precede l'adozione delle prescrizioni stesse.
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Bibliografia

  • BESSONE, Il privato e l'espropriazione. I principi di diritto sostanziale e i criteri di indennizzo, Milano, 1980
  • LUCIANI, Vecchi e nuovi principi in materia di espropriazione e indennizzo, Giur. Cost, 1980
  • MAZZAROLLI, Considerazioni sull’indennità di espropriazione alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale, Giur. cost., 1980
  • SORACE, Espropriazione della proprietà e misura dell’indennizzo, Milano, I, 1974

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