La disciplina portata dal codice civile (si veda l'
art. 873 cod. civ.) in materia di distanze legali tra le costruzioni deve cedere il passo ad una regola speciale. Occorre infatti considerare che l'
art. 9 del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, emanato in esecuzione della predetta norma sussidiaria di cui all'
art. 41 quinquies della L. n. 1150/42,
ha imposto una distanza minima inderogabile di dieci metri tra pareti finestrate e quelle di edifici antistanti, direttamente incidendo sui regolamenti edilizi comunali, vale a dire imponendo tali limiti ai Comuni nella adozione o nella revisione degli strumenti urbanistici. Ne segue che in assenza di prescrizioni specifiche, ovvero in presenza di regole meno restrittive, valgono direttamente i limiti di cui al riferito art. 9 (
Cass. Civ. Sez. II, ord. 12562/2023).
Un tempo non era del tutto chiaro il limite di operatività di siffatta norma: se cioè essa vincolasse soltanto l'amministrazione comunale (così
Cass. Civ. Sez. II, 3371/01 ed anche
Cass. Civ. Sez. II, 633/03)
ovvero se venisse direttamente ad incidere nei rapporti interprivati (in questo senso, cfr.
Cass. Civ. Sez. II, 4413/01). Quest'ultimo è l'orientamento attualmente prevalente, sancito anche dalle Sezioni Unite della Cassazione (
Cass. Civ. Sez. Unite, 14953/2011) che hanno stabilito la prevalenza della detta normativa sui regolamenti comunali, operando un fenomeno di sostituzione automatica delle regole eventualmente contrastanti, cui seguirebbe l'indispensabilità di un adeguamento anche della condotta interprivata.
E' notevole osservare che, quando il predetto art. 9 diviene in concreto applicabile (ciò che è possibile anche in esito alla disapplicazione delle disposizioni degli strumenti urbanistici contrastanti con il medesimo, disapplicazione che ben può essere operata dal giudice civile:
Cass. Civ. Sez. II, 21899/04),
norme regolamentari assurgono al rango di fonte primaria proprio in relazione al rinvio recettizio contenuto nella norma in esame. Né appare possibile, nell'ipotesi di violazione, evitare la sanzione ripristinatoria semplicemente eliminando la caratteristica di "veduta" dell'apertura finestrata della parete, degradando tale apertura a mera "luce" (in questo senso cfr.
Cass. Civ. Sez. II, 4834/2019).
Quali siano le conseguenze di una siffatta normativa in riferimento alla possibilità di agire per il risarcimento del danno non è del tutto perspicuo. Se infatti si può dire che normalmente la violazione della normativa in tema di distanza tra le costruzioni configura di per sé un pregiudizio per il vicino, suscettibile di risarcimento, non altrettanto si può dire per quanto attiene per l'invocazione di un danno generico, di per sé scaturente dalla sopraelevazione (
Cass. Civ. Sez. II, 7752/13). Rimane da capire che cosa possa dirsi delle ipotesi in cui, intervenuto tra i confinanti un preciso accordo derogatorio rispetto alle distanze legali (da qualificarsi in chiave di servitù: da costituirsi contrattualmente: cfr.
Cass. Civ. Sez. II, 3684/2021 in relazione all'insufficienza di una mera dichiarazione unilaterale), lo stesso debba qualificarsi come concluso in violazione della riferita normativa. Secondo l'opinione preferibile dovrebbe essere precluso al privato
venire contra factum proprium, pur rimanendo aperta la possibilità di valutare la violazione dal punto di vista amministrativo, dal momento che si imporrebbe la cennata immediata operatività del predetto limite dei dieci metri.