L’alienazione, da parte di un coerede, dei diritti allo stesso spettanti su alcuni beni non fa subentrare l’acquirente nella comunione. (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 737 del 19 gennaio 2012)

Ai sensi dell'art. 757 c.c., la vendita da parte di un coerede dei diritti allo stesso spettanti su alcuni beni facenti parte della comunione ereditaria, avendo effetti puramente obbligatori, non fa subentrare l'acquirente nella comunione stessa, a meno che non risulti, anche attraverso il comportamento delle parti (rappresentato, ad esempio, dall'inserimento dell'acquirente nella gestione della comunione), l'intenzione delle stesse, pur attraverso la menzione dei soli beni economicamente più significativi, di trasferire l'intera quota spettante all'alienante.

Commento

(di Daniele Minussi)
La chiave di volta della pronunzia è costituita dalla ritenuta natura obbligatoria e non traslativa della alienazione sub iudice. Quando infatti l'oggetto della vendita non già fosse la quota dei beni ereditari, bensì uno o più dei cespiti, è come se il coerede avesse alienato il proprio futuro assegno divisionale e non avesse sostituito l'acquirente nella propria posizione all'interno della comunione incidentale ereditaria. Ne segue che la vendita non può che configurarsi come "obbligatoria", in quanto avente ad oggetto l'esito divisionale. Un siffatto congegno negoziale, come è evidente, non attiverebbe il meccanismo della retratto successorio, dal momento che l'effetto non sarebbe quello di determinare l'ingresso dell'acquirente nella titolarità dei beni comuni anche agli altri coeredi, ma semplicemente quello di prefigurare la sorte della futura attribuzione dei beni che ne costituissero l'oggetto, all'esito del processo divisionale, al coerede alienante.

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