Cass. civile, sez. I del 2019 numero 5411 (25/02/2019)



L'indegnità a succedere prevista dall'art. 463 c.c., pur essendo operativa "ipso iure", non è rilevabile d'ufficio, dovendo essere dichiarata su domanda dell'interessato, dal momento che essa non è uno "status" del soggetto, né un'ipotesi di incapacità all'acquisto dell'eredità, consistendo piuttosto nella qualifica di un comportamento che si sostanzia in una sanzione civile di carattere patrimoniale avente un fondamento pubblicistico, ciò che conduce ad una causa di esclusione dalla successione. Essendo pertanto effetto di una pronuncia di natura costitutiva, essa può aversi per verificata soltanto al momento del passaggio in giudicato della relativa sentenza. Se tale giudicato si forma quando sia pendente in grado di appello un diverso giudizio avente ad oggetto la pretesa di un creditore del "de cuius", la negazione della qualità di erede operata dal convenuto, in ragione della suddetta indegnità, è una mera deduzione difensiva su un fatto costitutivo della domanda attrice, l'inammissibilità della quale va valutata ai sensi dell'art. 345, comma 2, c.p.c..
La sentenza passata in giudicato, quando contenga un'affermazione obiettiva di verità che non ammette la possibilità di un diverso accertamento, può avere efficacia riflessa nei confronti di un soggetto rimasto estraneo al rapporto processuale, purché titolare di un diritto non autonomo, ma dipendente dalla situazione definita in quel processo o, comunque, di un diritto subordinato a questa. Tale efficacia può essere rimossa attraverso l'opposizione di terzo di cui all'art. 404, comma 2, c.p.c.

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