Procura speciale e sua riqualificazione come contratto atipico


Questo caso è rilevante nella misura in cui serve a chiarire entro che limiti e nei confronti di quali soggetti passivi sia possibile da parte dell’Agenzia “riqualificare” un’operazione negoziale.

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Con atto ricevuto dal notaio ricorrente in data ..., n. ... di repertorio, registrato a ... il ... al n. ... , il notaio ricorrente riceveva una procura speciale conferita dalla società ... S.p.A. all’Ing. ...
L’atto veniva registrato con applicazione dell’imposta fissa di registro.
Con l'avviso di liquidazione impugnato l'Agenzia richiede il pagamento della complessiva somma di euro 233, oltre euro 6 per spese di notifica, ravvisando nell’atto in questione un “negozio atipico” avente contenuto patrimoniale, soggetto al pagamento dell’imposta proporzionale del 3% e al pagamento dell’imposta di bollo di euro 45.
Il ricorrente presentava istanza di annullamento in autotutela in data 28 giugno 2010, che veniva respinta come da lettera del 2 luglio 2010.
L’avviso è infondato in primo luogo per ciò che concerne la qualificazione della natura della maggiore imposta richiesta.
Ritiene il ricorrente che (non si tratta di novità, peraltro) l’operato dell’ufficio sia del tutto illegittimo sotto il profilo della qualificazione della maggiore imposta richiesta, che è da ritenersi complementare e non principale, con conseguente illegittimità dell’avviso.
Si riporta, a tal proposito, il § 4 della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 6 del 5 febbraio 2003.

4. Controllo da parte degli uffici dell’autoliquidazione dell’imposta principale
Il quadro normativo di riferimento porta a ritenere che l’attività di controllo demandata agli uffici non sia limitata a una verifica di eventuali errori materiali o di incoerenza rispetto ai dati contenuti nel modello unico informatico (questo tipo di controllo è, infatti, eseguito dal sistema telematico, cfr. circolare n. 3/T del 2002). Il controllo sulla determinazione dell’imposta principale dovuta in sede di “registrazione telematica” degli atti, deve tener conto anche degli elementi desumibili dalla copia dell’atto trasmesso per via telematica e non solo, quindi, di quelli risultanti dal modello unico informatico.
Il limite all’attività di controllo è costituito, in definitiva, dal contenuto dell’atto, con la conseguenza che l’ufficio non può fare riferimento a elementi esterni allo stesso, e anche se già in suo possesso, né può, altrimenti, acquisirne ulteriori inoltrando specifiche richieste agli interessati o svolgendo qualsiasi altra indagine.
Si raccomanda agli uffici di rilevare esclusivamente errori ed omissioni sulla base di elementi oggettivi, univoci e chiaramente desumibili dall’atto, senza sconfinare, in questa fase riservata al controllo dell’imposta principale, in delicate valutazioni o apprezzamenti sulla reale portata degli atti registrati o, comunque, pervenire a conclusioni sorrette da interpretazioni non univoche o che necessitino di qualsiasi attività istruttoria. Più precisamente, l’ufficio recupera la maggiore imposta principale quando, dal controllo degli importi autoliquidati, rilevi errori od omissioni materialmente evidenti ovvero riferibili a fattispecie per le quali la scrivente abbia già fornito apposite istruzioni. In quest’ultimo caso, nell’avviso di liquidazione dovrà farsi espresso riferimento, citandone gli estremi, al documento di prassi amministrativa (circolare, risoluzione, nota) che consente la tipologia di intervento effettuata; qualora in relazione alla fattispecie concreta non sia stato esplicitato l’orientamento dell’Agenzia, gli uffici sono invitati a contattare preventivamente la Direzione Regionale.

Da quanto precede risulta oltremodo chiaro che ritenere che l’atto in questione sia un “negozio atipico” sia operazione del tutto al di fuori dei poteri che l’ufficio può esercitare nei confronti del notaio rogante.
In fase di controllo dell’autoliquidazione l’ufficio può solo correggere errori e omissioni e non può esercitare apprezzamenti in merito alla natura dell’atto registrato.
E’ palese, infatti, che l’ufficio nell’avviso di liquidazione ha espresso opinioni, o meglio ha effettuato "delicate valutazioni o apprezzamenti sulla reale portata" dell’atto in una fase (quella dei trenta giorni – oggi sessanta - dalla registrazione telematica) in cui non gli era consentito, esponendo il notaio scrivente - illegittimamente - a personale responsabilità tributaria.
All’ufficio non è consentito di "ritenere" alcunchè nei trenta (ora sessanta) giorni dalla registrazione telematica.
Se del caso, l'imposta verrà recuperata come imposta complementare (o suppletiva), delle quali il notaio non è responsabile, ma mai come imposta principale. Quest'ultima, infatti, nei trenta (ora sessanta) giorni dalla registrazione telematica, può essere recuperata solo perché il notaio ha erroneamente detto che... 2+2 fa 5, ma non perché il notaio ha applicato una tesi interpretativa piuttosto che un'altra.
Appare pertanto evidente come vi sia duplicità di violazioni, da un lato dell’art. 3-ter del d. lgs. 18 dicembre 1997, n. 463, e, dall’altro, di precise direttive (quelle della circolare n. 6 del 2003) dei superiori gerarchici dell’amministrazione finanziaria centrale, con rischio di responsabilità a carico dell’amministrazione del funzionario firmatario.
Valgano in tal senso i seguenti riferimenti giurisprudenziali.

1) L’osservanza delle circolari amministrative può rilevare ai fini dell’esclusione della colpa grave dell’agente in quanto l’osservanza delle circolari adottate dall’organo gerarchicamente sovraordinato costituisce per l’amministrazione destinataria, un vero e proprio obbligo, trattandosi di atti dotati di efficacia esclusivamente interna all’ordinamento nel quale sono emanati, contenenti istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali, o gerarchicamente superiori, agli enti o organi periferici o subordinati (Corte Conti Veneto, sez. giur., 30 giugno 2009, n. 529).

2) Laddove con pluralità di atti (circolari esplicative, risposte a quesiti e verbali di constatazione e sopralluogo) l’amministrazione finanziaria abbia avallato e comunque non formalmente contestato la regolarità ed ortodossia del contegno tenuto dal contribuente, deve riconoscersi formato i legittimo affidamento di quest’ultimo nella correttezza del proprio operato. Conseguentemente è preclusa all’Erario la possibilità di pretendere il pagamento del tributo ovvero l’irrogazione di sanzioni costituendo l’enunciato principio criterio ispiratore dell’ordinamento tributario di rango costituzionale (Comm. Trib. Reg. Veneto Venezia Mestre, sez. XXIX, 9 gennaio 2009,. n. 1).

3) Sussiste il presupposto della colpa della pubblica amministrazione nel caso di erronea interpretazione di norme effettuata nonostante che sussistessero due circolari (una statale ed una regionale) che suggerivano la stessa esegesi poi ritenuta corretta in sede giurisdizionale dal giudice amministrativo: la possibilità di un’erronea interpretazione deve, infatti, ritenersi incolpevole soltanto nell’ipotesi in cui il testo normativo sia insuscettibile di ogni comprensibilità da parte della pubblica amministrazione in assenza di un intervento giurisdizionale (Cons. Giust. Amm. Sic., 20 aprile 2007, n. 361.

Appare sconcertante, tra l’altro, la consapevolezza dello stesso ufficio (ai limiti della vera e propria “confessione”) della violazione delle disposizioni di legge e di prassi amministrativa sopra indicate.
E’ sufficiente leggere la motivazione con cui viene respinta l’istanza di annullamento in autotutela, che lungi dal prendere in considerazione le doglianze avanzate si riduce alla logica del “modulo prestampato”.
La motivazione è la seguente: “Si comunica che le istanze di cui all’oggetto non possono essere accolte in quanto l’ufficio, ai sensi dell’art. 20 del d.p.r. 131/86, ha dato rilievo all’intrinseca natura dell’atto e alle conseguenze che sul piano giuridico derivano dalla volontà che gli interessati hanno manifestato, individuando il corretto negozio giuridico posto in essere fra le parti contraenti e ha applicato la relativa imposta. Non è stato tenuto conto di circostanze desumibili da elementi estranei all’atto”.
Tralasciando il fatto che nel caso di specie si tratta di una procura speciale, che è un atto unilaterale e non un contratto (il che dimostra come l’ufficio non rifletta sulle doglianze ma risponda utilizzando la tecnica del copia&incolla o del taglia&incolla), e che non vi sono quindi parti contraenti, affermare che la maggiore imposta è richiesta dando rilievo alla “intrinseca natura dell’atto” e alla “volontà che gli interessati hanno manifestato”, che altro è, se non attività puramente interpretativa?
L’ufficio, con il suo operare, riqualifica l’atto da “procura speciale” a “negozio atipico a contenuto patrimoniale” (che tipo di negozio sia, però, non lo dice…; dire “negozio atipico” è dire … nulla, sul piano giuridico). Cosa c’entra tutto ciò con gli errori di calcolo in sede di autoliquidazione, che soli legittimano l’ufficio alla richiesta della maggiore imposta?
L’avviso è infondato anche per ragioni relative al merito della questione.
Affermare che si tratta di negozio atipico, senz’altro aggiungere, è, come già detto, del tutto insignificante sotto il profilo giuridico-tributario.
Ed è semplicistico applicare a tale negozio l’aliquota residuale del 3% prevista dall’art. 9 della tariffa senza prima avere escluso la riconducibilità del negozio stesso, anche in via analogica o estensiva, a una delle categorie già previste dal d.p.r. 131/86. Analogo ragionamento va fatto per ciò che riguarda la base imponibile, individuata dall’ufficio in modo arbitrario, senza alcun riferimento normativo, nel compenso promesso al soggetto nominato per lo svolgimento dell’attività commessagli dalla società conferente.
Ed è risibile affermare che, nel caso di specie, l’attività svolta dal soggetto nominato è una “prestazione a contenuto patrimoniale”. Ciò significa non aver letto o capito l’atto di nomina di cui si discute, in cui ciò che viene prestata è una ”attività”.
In ogni caso, e ci pare considerazione dirimente, il soggetto nominato è lavoratore subordinato della società, come risulta dal contratto che si produce unitamente al presente ricorso e il compenso promesso è parte della retribuzione. Il conferimento della procura si pone pertanto in stretta connessione con il contratto di lavoro, nel quale si parla, significativamente, di “indennità di procura”.

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