Il 'trust' socio di società di persone


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Il presente studio trae spunto da un caso pratico, avente a oggetto la compravendita di un bene immobile di proprietà di una società in accomandita semplice della quale socio accomandatario è un “trust” (interno) regolato dalla legge inglese.
Il problema, concernente la compatibilità con l'ordinamento italiano di un trust (interno) che – in quanto tale - riveste la qualifica di socio di società di persone, impone di indagare il necessariamente connesso tema della soggettività del trust.
L'esame delle fonti (dottrinali e giurisprudenziali) sembra orientare verso la negazione della soggettività (civilistica) al trust .
Il trust, si ritiene, è una semplice “obbligazione” che il trustee deve adempiere a beneficio di terzi (i beneficiari) . I beni in trust appartengono al trustee e pertanto un ipotetico trasferimento di beni al “Trust XY” dovrebbe essere, dal punto di vista dello stretto diritto, considerato radicalmente nullo. Si tratterebbe di un trasferimento effettuato in favore di ... nessuno .
Tale richiamo parrebbe sufficiente a escludere che il "trust" possa rivestire la qualifica di socio di società di persone.
Socio sarà, invece, il trustee. E, salve eventuali limitazioni risultanti dall'atto istitutivo di trust, non si vedono ostacoli a che egli divenga socio accomandatario o accomandante di una società in accomandita semplice ovvero di una società in nome collettivo o, ancora, di una società semplice, acquisendo la relativa quota .
Occorre tuttavia interrogarsi in merito alla sorte dell'avvenuta iscrizione nel registro delle imprese dell'acquisto della quota effettuata in favore del trust, che, va notato subito, si pone in controtendenza rispetto alla più diffusa prassi professionale. Da anni, infatti, la pubblicità, sia nel registro delle imprese sia nei registri immobiliari, viene sempre eseguita "a favore" del trustee, essendo costui il proprietario dei beni in trust .
E' pur vero, però, che dall’art. 12 della Convenzione de L'Aja sembrerebbe potersi ricavare la facoltà di eseguire la pubblicità a favore del trust, in quanto detta norma stabilisce che il trustee può richiedere la “registrazione”, oltre che “as trustee” cioè “nella sua qualità di trustee”, anche “in such other way that the existence of trust is disclosed”, cioè “in qualsiasi altro modo che riveli l’esistenza del trust”.
Da qui la conclusione secondo cui poiché la pubblicità a favore del trust è uno degli “altri modi” che ne rivela l’esistenza, essa dovrebbe ritenersi ammissibile .
Lo stesso art. 12 Conv., tuttavia, fa salve le norme dell’ordinamento interno, ed esclude la possibilità di "registrare" il trust qualora ciò sia da tale ordinamento vietato o sia con esso incompatibile (“inconsistent”, recita il testo inglese della Convenzione, cioè non conforme ai principi).
Il problema è allora capire se, visto che non esistono norme interne che espressamente vietano la pubblicità a favore del trust, detta modalità pubblicitaria sia incompatibile con l’ordinamento interno per violazione di più generali principi .
Negare l'esecuzione della pubblicità a favore del trust argomentando dalla considerazione che il trustee è proprietario potrebbe sembrare semplicistico e non tenere conto delle particolari caratteristiche dell’istituto.
Nel trust, infatti, il collegamento tra patrimonio affidato e soggetto titolare di esso (il trustee) assume caratteristiche peculiari. Ciò che rileva è infatti l’elemento dinamico della gestione e il rapporto di titolarità con il soggetto gestore assume un rilievo meramente strumentale, tanto è vero che anche da parte dei giuristi inglesi il trustee è visto come titolare di un “ufficio” .
Si potrebbe quindi ipotizzare un'iscrizione in cui il “nome del trust” svolga esclusivamente una funzione “identificativa” del patrimonio affidato, senza con ciò voler giungere a costruire una soggettività che è estranea alla ricostruzione civilistica dell’istituto .
Serie obiezioni a tale ricostruzione emergono dall'analisi della recente giurisprudenza di legittimità , secondo cui in caso di acquisto immobiliare da parte di un fondo comune d’investimento, l’immobile deve essere intestato alla società di gestione del fondo e non al fondo “soggettivizzato”.
Questa sentenza sembra porsi quale punto fermo anche con riferimento al trust.
Non può negarsi, infatti, che in materia di fondi comuni di investimento il retroterra culturale che condusse all’emanazione della prima legge di disciplina nonché di quelle successive, è quello anglosassone, in cui il fondo comune di investimento assume la forma del contractual investment trust.
Il nostro ordinamento è invece tradizionalmente legato al soggetto come punto di riferimento delle situazioni giuridiche proprietarie e all’idea di proprietà come diritto di utilizzare i beni nell’interesse proprio e non nell’interesse altrui, e ciò ha condotto al diffondersi, almeno all’inizio, di teoriche volte ad individuare, in materia di fondi comuni di investimento, alternativamente, di comproprietà tra gli investitori in proporzione alle somme versate , di proprietà collettiva , di mandato a gestire in favore della società di gestione , di comunione , di proprietà fiduciaria dei beni da parte della società di gestione , di associazione atipica con scopo di lucro , di fondazione , di associazione in partecipazione con attribuzione alla società di gestione della qualifica di associante ovvero – sia pure dubitativamente - di nuovo soggetto titolare di un patrimonio di destinazione composto dalle somme versate dagli investitori e che li gestisce sulla base del regolamento.
Queste tesi erano probabilmente condizionate dalla visione dell’art. 2740 c.c., come norma derogabile solo in virtù di un’espressa disposizione legislativa e quindi la più fondata tesi, fatta propria oggi dalla Corte di Cassazione, che ricostruiva la titolarità del fondo in capo alla società di gestione, sebbene affetto da un vincolo di destinazione e separato dal rimanente patrimonio della società (cioè in modo analogo alla proprietà del trustee del trust), veniva considerata quasi eversiva rispetto ai principi generali dell’ordinamento, nonostante già nel codice civile vi fossero ipotesi di proprietà affette da un vincolo di destinazione, molto simili alla proprietà del trustee, quali il fondo patrimoniale e la proprietà del mandatario senza rappresentanza.
Giustamente la sentenza richiama anche altre ipotesi in cui parte del patrimonio di un soggetto è destinato a un particolare scopo e che, proprio per tale ragione, viene sottratta al regime generale dell’art. 2740 c.c., segnatamente le fattispecie di cui agli art. 2447-bis, ss., c.c. e all’art. 3, comma 2 della l. 30 aprile 1999, n. 130 in materia di cartolarizzazione dei crediti e precisa che in tutte tali situazioni non si dubita che il patrimonio separato (o destinato) è pur sempre da ricondurre alla titolarità del soggetto (persona fisica o giuridica che sia) dal quale esso promana, ancorchè occorra tenerlo distinto dal resto del patrimonio di quel medesimo soggetto o da eventuali altri segmenti patrimoniali ugualmente sottoposti ad analogo regime di separazione . E aggiunge che ogni attività negoziale o processuale posta in essere nell’interesse del patrimonio separato non può che essere espletata in nome del soggetto che di esso è titolare, pur se con l’obbligo di imputarne gli effetti a quello specifico ben distinto patrimonio.
La conclusione della sentenza è molto netta (par. 2.1): il fondo comune di investimento non costituisce soggetto di diritto a sé stante.
Conclusione quest’ultima che si fonda, a tacer d’altro , anche sulla circostanza, comune al trust, dell’assenza di una struttura organizzativa minima, avente rilevanza esterna quale ad esempio si riscontra nelle associazioni e nelle società di persone.
Il rapporto tra società di gestione e fondo comune di investimento, così come ricostruito dalla sentenza, viene quindi a coincidere con quello esistente tra trustee e trust fund .
Non può farsi a meno di rilevare, peraltro, che ammettendo la pubblicità a favore del trust, emergerebbero altri e delicati problemi, primo fra tutti quello della verifica della legittimazione a disporre, data l’assenza di un regime pubblicitario dell’atto istitutivo di trust idoneo a dare certezza della titolarità dell’ufficio di trustee .
Dal punto di vista pratico non v’è quindi dubbio che la pubblicità a nome del trustee risolve tale problema, perché tutte le volte in cui si ha un mutamento dell’ufficio occorre procedere a una nuova iscrizione in favore del trustee subentrante, per cui la circolazione giuridica diviene maggiormente sicura .
Ammesso, quindi, che il trustee possa divenire socio di una società di persone, occorre brevemente esaminare il problema della responsabilità per le obbligazioni sociali, nel caso in cui egli sia socio accomandatario di una s.a.s. o socio di una società in nome collettivo o di una società semplice, atteso che l'art. 2313, comma 1, c.c. per la società in accomandita semplice, l'art. 2291 c.c. per la società in nome collettivo e - con norma però derogabile -, l'art. 2267 c.c. per la società semplice, stabiliscono che i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali.
E' noto che, secondo il diritto inglese il trustee risponde delle obbligazioni inerenti al trust anche con il proprio patrimonio personale, indipendentemente dalla circostanza che egli abbia o meno informato il terzo in merito alla propria qualità di trustee .
La ragione di tale principio risiede proprio nel fatto che il trust non è un soggetto di diritto, per cui l’attività del trustee non può essere equiparata a quella di un organo di un ente.
Il trustee che abbia adempiuto l'obbligazione, tuttavia, avrà diritto di rivalsa nei confronti dei beni in trust e tale diritto è assistito da una sorta di privilegio (“lien” o “charge”) su detti beni, nel senso che esso dev’esser soddisfatto con precedenza rispetto ai diritti dei beneficiari .
Secondo la giurisprudenza inglese la responsabilità illimitata del trustee sussiste, come già detto sopra, anche se egli ha informato il terzo contraente che egli sta agendo nella qualità di trustee .
Esistono, però, numerosi leggi diverse da quella inglese secondo le quali, invece, qualora il trustee abbia informato il terzo che egli sta agendo in tale qualità, risponderà dei relativi debiti solo con i beni in trust .
Tanto premesso, occorre chiedersi se è possibile affermare che il trustee socio illimitatamente responsabile di società di persone risponda delle obbligazioni sociali solo con i beni in trust, qualora, ad esempio, il trust sia regolato da una legge che prevede tale limitazione di responsabilità.
Va osservato, anzitutto, che le leggi sopra indicate consentono la limitazione di responsabilità in capo al trustee solo nell'ambito di rapporti contrattuali stipulati tra, da una parte, per così dire, il trust , e, dall'altra, i terzi, mentre nel caso al vaglio i rapporti contrattuali sono stipulati tra, da una parte, la società (e non il trust), in ipotesi amministrata dal trustee stesso e, dall'altra, i terzi.
E' sufficiente tale rilievo per escludere l'operatività della responsabilità limitata ai beni in trust?
Argomenti a sostengo della soluzione negativa possono trarsi dalle norme che consentono la partecipazione di società di capitali a società di persone, fattispecie che presenta profili di affinità con quella al vaglio.
Si pensi al caso della società di capitali unico socio accomandatario di una s.a.s., chiamata a esercitare poteri di amministrazione. Analogamente, qualora il trustee di un trust divenga socio accomandatario di una s.a.s. egli, ai sensi di legge, sarà chiamato a esercitare poteri di amministrazione.
Ulteriore affinità è costituita dal fatto che l'amministratore di società è titolare di un ufficio di diritto privato, inteso come complesso di poteri-doveri finalizzato al soddisfacimento di interessi privati da esercitarsi nei modi prescritti dalla legge e, allo stesso modo, il trustee è anch'egli titolare di un ufficio di diritto privato, finalizzato al soddisfacimento degli interessi dei beneficiari del trust .
La differenza tra le due fattispecie parrebbe invece da individuarsi in ciò, che mentre alla persona giuridica amministratore è imputabile un unico patrimonio, per cui è con tale intero patrimonio che essa risponderà delle obbligazioni sociali, il trustee di un trust può essere titolare di una pluralità di patrimoni, distinti dal proprio patrimonio personale (si pensi al caso di chi è trustee di più trust).
Peraltro vi è un caso in cui tale differenza si annulla. E' il caso della società per azioni che istituisce un patrimonio destinato a uno specifico affare e, successivamente, assume una partecipazione in una società di persone, divenendone amministratore. La fattispecie sembra del tutto similare, in quanto poichè ai sensi dell'art. 2447-quinquies c.c. i creditori della società non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo specifico affare, ciò significa che, nell'ipotesi al vaglio, i creditori della società di persone amministrata da una società per azioni che abbia previamente costituito un patrimonio destinato a uno specifico affare non potranno far valere i propri diritti su di esso. Analogamente, allora, quando amministratore della società di persone è il trustee di un trust, i creditori sociali non potranno fare valere i loro diritti nè sui beni costituenti il patrimonio personale del trustee nè, se del caso, sui beni oggetto di altri trust dei quali costui rivesta l'ufficio di trustee.
Quanto sopra pare quindi dimostrare che la fattispecie al vaglio non si pone fuori dal sistema.
Per quanto riguarda la disciplina applicabile, la fattispecie della s.p.a. che ha costituito un patrimonio destinato e che diviene socio di una società di persone fornisce spunti applicativi.
Qui di seguito si propone uno schema di sintesi.
1) Nel caso di s.p.a. socio di società di persone, sul patrimonio della s.p.a. concorrono i creditori della s.p.a. stessa e i creditori della società di persone che non hanno trovato soddisfazione nel patrimonio di questa.
2) Nel caso di s.p.a. socio di società di persone, che ha previamente costituito un patrimonio destinato, sul patrimonio generale della s.p.a. concorrono i creditori generali della s.p.a. stessa e i creditori della società di persone che non hanno trovato soddisfazione nel patrimonio di questa, mentre sul patrimonio destinato possono agire solo “i creditori dell’affare”.
3) Nel caso di trustee socio illimitatamente responsabile di società di persone sui beni in trust concorrono “i creditori del trust” e i creditori della società di persone che non hanno trovato soddisfazione nel patrimonio di questa, mentre sul patrimonio personale del trustee possono soddisfarsi solo i suoi creditori personali.
4) Per le obbligazioni derivanti da fatti illeciti, invece, la s.p.a. risponde con il patrimonio generale, e ciò per espressa disposizione di legge; analoga regola sembra applicabile anche al trustee.
Ulteriore problema è verificare come si applicano al trust tutte quelle norme che presuppongono la qualifica di imprenditore.
Infatti, delle due l'una: o si nega in radice che il trustee possa essere socio illimitatamente responsabile di società di persone, e allora occorre individuare ragioni "di sistema" a supporto di tale affermazione; oppure si ammette, come si è cercato di ipotizzare, nel qual caso occorrerà, appunto, verificare se e come si applicano le norme interne che attribuiscono al socio illimitatamente responsabile di società di persone (commerciale) la qualità di imprenditore al trustee socio.
Uno dei problemi più rilevanti, in tale prospettiva, è l'ipotesi del fallimento della società, cui consegue automaticamente, ai sensi dell'art. 147 l. fall., il fallimento dei soci illimitatamente responsabili e, quindi, del trustee.
Tale problema ancor più si aggrava nell'ipotesi in cui il trustee socio non abbia rispettato la separazione patrimoniale (cioè abbia confuso i beni in trust con il proprio patrimonio personale) ovvero sia un trustee che "amministri" più trust e non abbia rispettato la separazione patrimoniale (cioè abbia confuso i beni oggetto dei diversi trust tra loro e/o con il proprio patrimonio personale). Il discorso ci porterebbe molto lontano rispetto all'ambito del presente studio, ma si farà un breve cenno a un possibile percorso interpretativo.
Certamente, ai sensi dell'art. 11, comma 2, lett. b), Conv., qualora il trustee fallisca, per così dire, personalmente, i beni in trust non potranno essere appresi alla massa fallimentare, operando, appunto, la separazione patrimoniale. Dovrebbe valere, però, anche la regola inversa, per cui, fallito il trustee in quanto socio illimitatamente responsabile di una società di persone, i creditori della società non potranno aggredire il suo patrimonio personale.
Quanto all'ipotesi del trustee che fallisca quale socio illimitatamente responsabile e non abbia rispettato la separazione patrimoniale, l'ipotesi non sembra molto diversa da quella disciplinata dall'art. 91 del d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), applicabile anche alle sim, alle sgr, e alle sicav, che prospetta proprio l'ipotesi del mancato rispetto della separazione del patrimonio dell'ente sottoposto a liquidazione coatta amministrativa rispetto a quelli dei clienti nonchè l'ipotesi del mancato rispetto della separazione patrimoniale dei patrimoni dei clienti tra loro, stabilendo specifiche regole per la restituzione.
La fattispecie al vaglio sembra del tutto simile, laddove si proceda a sostituire l'espressione "patrimonio dell'ente" con "patrimonio personale del trustee", "patrimonio dei clienti" con "beni in trust" e "patrimoni dei clienti tra loro" con "beni oggetto dei diversi trust".

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