Quando la casa coniugale appartiene anche ad un terzo non spetta al coniuge superstite il diritto di abitazione. Non convertibilità pro quota del diritto di abitazione in una indennità monetaria equivalente. (Cass. Civ., Sez. II, ord. n. 29162 del 20 ottobre 2021)

Il diritto di abitazione nella casa adibita a residenza familiare, sancito dall'art. 540 cod.civ. in favore del coniuge sopravvissuto, sussiste qualora detto cespite sia di proprietà del "de cuius" ovvero in comunione tra questi ed il coniuge superstite, mentre esso, al contrario, non sorge ove il bene sia in comunione tra il coniuge deceduto ed un terzo, non essendo in questo caso realizzabile l'intento del legislatore di assicurare, in concreto, al coniuge sopravvissuto il godimento pieno del bene oggetto del diritto; in tale ultima evenienza, peraltro, non spetta a quest'ultimo neppure l'equivalente monetario del citato diritto, nei limiti della quota di proprietà del defunto, poiché, diversamente, si attribuirebbe un contenuto economico di rincalzo al diritto di abitazione che, invece, ha un senso solo ove apporti un accrescimento qualitativo alla successione del coniuge sopravvissuto, garantendo in concreto il godimento dell'abitazione familiare.

Commento

La pronunzia in esame mette a fuoco il caso della contitolarità tra de cuius ed un terzo della casa già da costui adibita a casa coniugale unitamente al coniuge. Nell'ipotesi infatti non sorge il diritto previsto dall'art. 540 cod.civ. (che, come è noto, si sostanzia in un prelegato ex lege cui consegue un incremento anche quantitativo rispetto alla porzione legittima spettante al coniuge superstite). V'è tuttavia di più: la S.C. ha infatti avuto modo di precisare come la contitolarità del bene tra il defunto e il terzo non possa fondare un diritto economico compensativo (come tale da porre a carico dell'asse, non certamente del contitolare del bene) in favore del coniuge superstite.

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