Le condizioni dell'Agenzia delle Entrate per la rilevanza fiscale dei trust interni: osservazioni critiche (da Trusts e attività fiduciarie n. 3/2011)


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Intervenire con un commento sul contenuto della recente circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 61 del 27 dicembre 2010, in tema di trust, non è compito semplice.
Di primo acchito si potrebbe essere tentati di considerarla del tutto irrilevante, visto che per ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, le circolari dell’Agenzia delle Entrate sono da considerarsi esclusivamente quali pareri di parte, prive di qualsiasi contenuto precettivo nei confronti del contribuente.

Tuttavia, poichè la circolare è diretta agli uffici territoriali, che di essa ne faranno certamente applicazione, l’analisi di essa è doverosa, pur non potendosi sottacere il dato, ormai costante, per cui, almeno per ciò che riguarda le circolari in materia di trattamento tributario del trust, l’interprete si trovi ad affrontarne il testo allo stesso modo in cui si troverebbe ad affrontare un testo di legge. E' divenuto ormai abituale l'atteggiamento dell'Agenzia delle Entrate, che in materia di trust (e non solo), “legifera” tramite circolari e risoluzioni, con violazione palese di norme costituzionali e tradimento dei principi della certezza del diritto e dell’affidamento del contribuente.
Nel prosieguo del discorso, limiteremo il capo di osservazione solo alla prima parte della circolare, escludendo dall'analisi gli ultimi due paragrafi di essa, dedicati ai trust esteri con beneficiari residenti e ai beneficiari esteri di trust residenti.

Giova rilevare, proprio in materia di trust, che a tutt’oggi, mentre esiste una – sia pure scarna – normativa in materia di imposte dirette - con riferimento all’imposizione indiretta non vi è in Italia una disciplina normativa che si riferisca espressamente al trust .
L'individuazione del trattamento tributario del trust, in assenza di chiare disposizioni normative, non può che essere allora il frutto dell'interpretazione, che però deve rifuggere dall'appiattire la figura su altre proprie della nostra tradizione giuridica (come ad esempio il negozio fiduciario, diversissimo dal trust), dovendo invece tenere conto delle specificità proprie di tale istituto.
Nessuna considerazione sul piano strettamente fiscale può essere quindi elaborata senza valutare l'articolarsi del fenomeno "trust" sul piano operativo e, in particolare sul piano civilistico della causa e degli effetti .

La rilevanza del profilo causale del “progetto” che attraverso l’istituzione di un trust il disponente intende perseguire è determinante ai fini del ragionamento che si tenterà di compiere con riguardo alla circolare in commento. Infatti, in assenza di una specifica disciplina tributaria di una determinata materia, è principio generale dell’ordinamento tributario che la tassazione di una fattispecie non può prescindere dalla sua ricostruzione civilistica. Pertanto solo dopo la precisa ricostruzione civilistica della fattispecie, unita all’individuazione, anch’essa precisa, dell’esistenza o meno di un “fatto imponibile” e di una “base imponibile”, che si potrà individuare il trattamento tributario della vicenda giuridica. Le affermazioni delle circolari, da tale angolo visuale, sono pertanto da considerare quali opinioni, per così dire “programmatiche” (come dire: se risultasse che la vicenda giuridica produce tali effetti ne conseguirà tale tassazione), senza che possano in alcun modo vincolare l’operatore giuridico. La circolare in commento è a tal proposito, fulgido esempio, come di seguito si vedrà.

La prima impressione che scaturisce dalla lettura della circolare è che le “regole" da essa affermate, qualora applicate senza analisi critica, conducono a ritenere privi della soggettività giuridica affermata dall’art. 73 Tuir, gran parte dei trust che vengono stipulati in Italia, con conseguente, inammissibile, interpretazione sostanzialmente abrogatrice della norma, il cui ambito applicativo, come emergerà da quanto si dirà in seguito, resterebbe ridottissimo, se non addirittura inesistente. Tale conclusione appare dotata di un buon grado di certezza per i trust c.d. familiari.

Occorre invece, ad avviso di chi scrive, tentare di disattendere una lettura così tranchant della circolare, cercando di verificare se è possibile estrapolare da essa affermazioni che possano essere condivisibili.
La circolare esordisce riassumendo la disciplina della tassazione dei trust ai fini delle imposte dirette quale risulta dall’art. 73 Tuir come interpretato dalla circolari n. 48/2007 e n. 3/2008.

Com’è noto, per effetto della modifica dell’art. 73 Tuir il trust – ai soli fini delle imposte dirette – si considera munito di soggettività giuridica e, come tale, soggetto a Ires .
Rientrano nel campo di applicabilità di tale imposta sia i trust residenti, che abbiano o meno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale; sia i trust non residenti, limitatamente ai redditi prodotti in Italia.
La circolare ricorda inoltre che l’interpretazione della norma effettuata nei documenti di prassi successivi alla sua emanazione, abbia condotto alla suddivisione dei trust, ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi, in tre “tipologie”:
  • trust “trasparenti”, qualora prevedano che il trustee eroghi i redditi ai beneficiari;
  • trust “opachi”, qualora prevedano che il trustee accumuli i redditi;
  • trust “misti”, qualora prevedano in parte l’accumulazione dei redditi e in parte la loro erogazione ai beneficiari.

Ai fini dell’applicazione dell’art. 73, comma 2, Tuir, si intende per beneficiario “individuato” il soggetto che: 1) sia individuato nominativamente nell’atto istitutivo e 2) abbia il diritto di pretendere dal trustee l’erogazione del reddito.
Afferma ancora la circolare che, se nell’atto istitutivo del trust è fatta espressa menzione nominativa dei beneficiari, il trust assume, ai fini delle imposte sui redditi la qualifica di soggetto “trasparente per natura”.
Il contrasto tra tale ultima affermazione e quella immediatamente precedente è evidente. Se, infatti, non è sufficiente che il beneficiario sia nominativamente individuato ai fini di considerare il trust trasparente ma occorre che egli abbia anche il diritto di pretendere l’erogazione del reddito, ne consegue che, appunto, l’indicazione nominativa in sè nulla dice in merito al suo diritto di pretendere dal trustee l’erogazione di reddito, che andrà verificato analizzando il contenuto concreto dell'atto istitutivo.

Sarà pertanto possibile che il trust menzioni nominativamente i beneficiari, senza però che costoro abbiano il diritto di pretendere alcun pagamento, come accade nei trust c.d. discrezionali, in cui il beneficiario non ha, nei confronti del trustee, diritto di pretendere pagamenti dal trustee, ma solo diritto a che egli eserciti la sua discrezionalità secondo le modalità stabilite nell’atto istitutivo.

La premessa si conclude ricordando che i redditi imputati ai beneficiari sono qualificati come redditi di capitale e che l’art. 73 Tuir prevede specifiche disposizioni antielusive al fine di determinare la residenza del trust qualora esso sia stato istituito in paesi che non consentono lo scambio di informazioni.

Nel secondo paragrafo la circolare espone principi e caratteristiche dell’istituto, al fine di giungere ad alcune importanti conclusioni in punto di applicabilità delle imposte dirette.
Si ricorda, in primo luogo, che il trust è un negozio giuridico fondato sul rapporto di fiducia tra disponente e trustee .
Si aggiunge che, a seguito dell’istituzione del trust, il disponente trasferisce beni di sua proprietà al trust e designa un gestore (= il trustee) che li amministra nell’interesse dei beneficiari o per uno scopo prestabilito .

Gli elementi essenziali del trust, continua la circolare, sono i seguenti :
  • la separazione dei beni del trust rispetto al patrimonio del disponente, del trustee e dei beneficiari;
  • l’intestazione dei beni al trustee ;
  • il potere-dovere del trustee di amministrare, gestire e disporre dei beni secondo il regolamento del trust o le norme di legge.

Detto questo, la circolare afferma che può essere riconosciuta validità giuridica in Italia solo ai trust connotati dagli elementi distintivi sopra elencati .
La circolare tuttavia, nell'indicare gli elementi distintivi del trust oblitera completamente (consapevolmente?) – e tale scelta si rivela del tutto funzionale rispetto alle affermazioni successive – il terzo comma dell’art. 2 Conv., il quale afferma, significativamente, che «Il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust». Dimentica inoltre (o forse dà per scontato) un altro importante presupposto di riconoscibilità degli effetti giuridici propri di un trust, richiesto dall’art. 3 Conv.: che il trust sia costituito volontariamente e comprovato per scritto.

Andando avanti nella lettura della circolare riscontriamo che, secondo il pensiero dell’Agenzia, dagli elementi distintivi che caratterizzano i trust si ricava («In sostanza, quindi», sono le parole usate) che «i beni facenti parte del patrimonio del trust non possono continuare ad essere a disposizione del disponente né questi può in nessun caso beneficiare dei relativi redditi».
Queste affermazioni destano, invero, serie perplessità (se non sconcerto), soprattutto l'ultima (= il disponente non può - in nessun caso, si badi - beneficiare dei redditi del trust), letteralmente "inventata " dall'Agenzia, che fa dire all'art. 2 Conv. ciò che esso assolutamente non richiede quale elemento caratteristico del trust. Tale lettura dell'art. 2 Conv., che invece va inquadrato nel contesto dell'intera Convenzione, mostra un’assoluta incomprensione delle funzioni cui si presta il trust da parte dell’Agenzia, se non altro nella misura in cui le conclusioni cui giunge in punto di "validità giuridica" di esso debbano ritenersi estensibili anche all’ambito civilistico.

Tale estensione, invero, sembra essere subito negata dall'Agenzia, che in qualche modo "corregge il tiro", affermando invece (ma il linguaggio usato, però, appare introdurre un'inaccettabile conclusione: «Non possono, quindi», dice l'Agenzia) che i trust istituiti e gestiti per realizzare una mera interposizione nel possesso dei beni e dei redditi non possono essere considerati validamente operanti, sotto il profilo fiscale.
Affermazioni diverse, pertanto, appaiono produrre il medesimo effetto, che riteniamo più corretto definire, anzichè di "invalidità", di "irrilevanza" del trust sotto il profilo fiscale:
a) sono fiscalmente irrilevanti i trust in cui i beni continuano a essere a disposizione del disponente;
b) sono fiscalmente irrilevanti i trust in cui il disponente beneficia dei relativi redditi;
c) sono fiscalmente irrilevanti i trust istituiti e gestiti per realizzare una mera interposizione nel possesso dei beni e dei redditi.

Quale esempio del caso c) la circolare riporta il caso in cui «l'attività del trustee risulti eterodiretta dalle istruzioni vincolanti riconducibili al disponente o ai beneficiari».
La situazione di eterodirezione del trust viene subito chiarita e sviluppata dalla circolare, che conclude con l'indicazione di una serie di "tipologie" di trust o, meglio, di clausole dell'atto istitutivo, la cui presenza renderebbe il trust fiscalmente inesistente, con conseguente tassazione dei redditi in capo al disponente secondo i principi generali.

Ma, prima ancora, l'Agenzia chiarisce come sia essenziale, al fine di non considerare irrilevante il trust sotto il profilo fiscale, che il potere del trustee di amministrare e disporre dei beni a lui affidati sia effettivo, e che quindi il disponente non possa riservare a sè stesso il potere di controllo sui beni in trust in modo da precludere al trustee il pieno esercizio dei poteri dispositivi a lui spettanti in forza dell'atto istitutivo e/o della legge regolatrice. Non sarebbe rilevante fiscalmente un trust in cui il potere di gestire e disporre dei beni permanga tutto in capo al disponente, sia qualora ciò emerga per tabulas, dall'atto istitutivo, sia qualora ciò si ricavi da elementi di fatto.

Detto ciò la circolare passa a elencare una serie di clausole, la cui esistenza nell'atto istitutivo di trust lo rende irrilevante fiscalmente.
Prima di analizzare in dettaglio tali clausole, è opportuno spendere qualche parola su quelli che, a nostro parere, sono i principi che fanno da sfondo al contenuto della circolare e sulla cui base occorre valutare se le clausole esemplificate sono davvero tali da rendere il trust fiscalmente irrilevante.
Ora, in base all’art. 2, paragrafo primo, Conv., affinché possa parlarsi di trust occorre che i beni siano stati “posti sotto il controllo” del trustee (e che, pertanto, il disponente abbia perduto tale controllo).

Lo stesso art. 2, all’ultimo paragrafo, prevede però che “il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà …non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust”.
La circolare, pertanto, tenta di prendere posizione in merito a una delle tematiche più delicate e sfuggenti dell'intera materia riguardante i trust, che diventa ancor più complessa con riferimento alla figura, cui si è già accennato, del trust autodichiarato, in cui il disponente, senza procedere ad alcun trasferimento di beni, se ne dichiara trustee, apponendo così sui beni stessi il vincolo di destinazione tipico del trust .

Non v'è dubbio che il fenomeno della riserva di diritti e/o poteri in capo al disponente è certamente lecito, ma non è men vero - e ciò è ben colto dalla circolare, che sul punto è pienamente condivisibile - che tale controllo non può spingersi fino a un punto tale che, nel caso concreto, possa ritenersi che il disponente non ha affatto perso il controllo sui beni in trust.
Ma discernere i casi di controllo lecito del trust da quelli di controllo illecito è questione delicata, sfuggente, e che va risolta caso per caso .
Il rapporto tra il disponente e il trustee e la riserva di poteri in capo al primo, è pertanto questione della massima rilevanza, in quanto le vicende relative ai diritti e/o poteri del disponente ed al suo comportamento possono influenzare notevolmente la stessa validità del trust quale meccanismo fondato sull'affidamento, non tanto sotto il profilo fiscale ma, ancor prima, sotto il profilo civilistico.

Elemento caratterizzante del trust è infatti l'affidamento di una situazione giuridica soggettiva di titolarità del disponente al trustee, ciò che comporta l'attribuzione di essa al trustee e quindi il distacco dalla sfera giuridico-patrimoniale del disponente.
Nulla esclude che oggetto del trasferimento al trustee, per esempio, sia la sola nuda proprietà di un bene, nel qual caso, il disponente, ritenendo il diritto di usufrutto, manterrà il potere di godimento sul bene.
Ma il punto rilevante non concerne, in senso stretto, l'esercizio di poteri diretti sui beni in trust, bensì i limiti di esercizio di eventuali poteri di controllo dell'esercizio dell'affidamento da parte del trustee.

L'affidamento al trustee di una situazione giuridica soggettiva non determina infatti il sorgere di rapporti obbligatori tra disponente e trustee. Quest’ultimo non deve quindi "rendere conto" della sua attività al disponente.
Per aversi trust occorre allora che i beni siano "effettivamente" (punto, anche questo, ben colto dalla circolare) posti sotto il controllo del trustee il quale deve godere di autonomia nell'esercizio delle sue funzioni .
Egli (il trustee) risponderà dell’adempimento delle sue obbligazioni non nei confronti del disponente, bensì nei confronti dei beneficiari del trust.
Il profilo più problematico concerne appunto l'individuazione dei limiti superati i quali la riserva di poteri in capo al disponente fa sì che la fattispecie non sia più riconducibile al trust ma ad altra figura.

Il trustee che "ubbidisce" al disponente non è, infatti, qualificabile come trustee, con tutto ciò che ne consegue in punto di opponibilità ai terzi (e, quindi, anche al fisco) dell'effetto di separazione patrimoniale che scaturisce dall'istituzione di un siffatto trust (che, per tale motivo, non potrebbe essere riconosciuto, neanche sotto il profilo civilistico).
Il dato formale non è però sufficiente ad escludere una situazione di eterodirezione del trustee. In altri termini il fatto che l'atto istitutivo taccia in merito ai poteri del disponente non esclude certo che la situazione concreta sia tale da ricondurre la sua posizione da quella di mero "controllo" a quella di "direzione" del trustee (e quindi dell'affidamento).

Occorra però distinguere tra fattispecie in cui non si ha vero trust, cioè le fattispecie definibili come "sham" in senso stretto , espressione traducibile con "fasullo" e fattispecie in cui invece si è comunque in presenza di un trust, sebbene si tratti in realtà di un trust "bare", cioè un trust nudo in favore dello stesso disponente, nel quale il trustee, appunto, è ridotto a un mero mandatario.
Questa distinzione è estremamente importante e serve a comprendere come non si debba ragionare in modo unitario, considerando necessariamente tutte le fattispecie in cui il disponente si riserva eccessivi poteri, come fattispecie in cui non si può parlare di trust. La verifica va effettuata in concreto, distinguendo appunto, i casi in cui manca fin dall'origine la volontà di istituire un trust, fattispecie riconducibile, in diritto italiano, alla simulazione assoluta, e fattispecie in cui, pur essendovi la volontà di istituire il trust, il concreto atteggiarsi del rapporto conduce a ritenere che il trustee sia privo di reale indipendenza e autonomia e che quindi il rapporto stesso, lungi dall'essere simulato, va in realtà riqualificato in modo diverso, cioè quale mandato, a dispetto dell'esistenza di un formale atto istitutivo di trust.

Fattispecie del genere non sono venute ancora all'attenzione della giurisprudenza italiana, mentre si riscontrano prese di posizione da parte dell'amministrazione finanziaria (stranamente non ricordate nella circolare in commento).

Nel primo caso, si trattava di un trust (denominato “Gli Aquiloni”), in cui il disponente:
a) rivestiva, altresì, l’ufficio di guardiano ed in tale veste era dotato di potere di veto su tutti gli atti di straordinaria amministrazione del trustee;
b) poteva nominare o revocare i successivi guardiani;
c) aveva il potere di impedire al trustee sia di accettare conferimenti in trust da parte di terzi, sia di sostituire i beni in trust, sia di variare gli investimenti o la struttura investitrice.

L’Agenzia delle Entrate, posta di fronte ad un negozio siffatto, con la sua risposta ad interpello del 24 settembre 2002 ha ritenuto di dover riqualificare il trust come mandato con rappresentanza.
In una seconda occasione, si trattava di un trust in cui il disponente:
a) era altresì l’unico beneficiario;
b) poteva revocare il trustee;
c) aveva diritto alla totalità del reddito prodotto dall’unico bene in trust – rappresentato da una quota di accomandante in una s.a.s. – senza che al trustee competesse discrezionalità alcuna al riguardo.
Anche in questo caso l’Agenzia delle Entrate, con la sua risposta ad interpello del 1° ottobre 2002 ha riqualificato il trust come mandato con rappresentanza.
Il profilo della mancata perdita di controllo dei beni in trust da parte del disponente diviene ancor più marcato nel caso di trust revocabile da parte del disponente .

Alla luce di queste premesse potremmo ora passare all’analisi delle clausole individuate dalla circolare, la cui presenza in un trust lo rende (rebbe?) inesistente.
Ma, ancor prima, mi pare opportuno tentare di meglio inquadrare giuridicamente l’ambito normativo in cui si muove la circolare.
Se non abbiamo inteso male, nei casi esemplificati il trust realizzerebbe un’indebita interposizione nel possesso dei redditi, con conseguente applicazione dell’art. 37, comma 3, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600.

Tale norma consente di imputare al contribuente (il disponente, nel caso del trust) i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti (il trustee, nel nostro caso), quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona.
Tutti i trust contenenti le clausole indicate nella circolare, integrerebbero, secondo l’interpretazione delle stesse fornita dall’Agenzia, casi di interposizione di persona, così integrando la dimostrazione ovvero le presunzioni gravi, precise e concordanti richieste dall’art. 37, comma 3, cit.

Ciò determina, pertanto, la disapplicazione dell’art. 73 Tuir e la conseguente negazione della soggettività dei trust contenenti clausole del tipo di quelle indicate nella circolare . Trust contenenti clausole del genere sarebbero quindi del tutto trasparenti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi. Il che val quanto dire che, dal punto di vista fiscale, il trustee (rectius: il trust, se ci poniamo dal punto di vista delle imposte dirette) non potrà considerarsi proprietario dei beni in trust .

In una diversa prospettiva si potrebbe anche affermare che la circolare stigmatizzi l’uso di certe clausole negli atti istitutivi di trust, così ritenendo che, in tali casi, si abbia una sorta di abuso di forme giuridiche al fine di realizzare risparmi di imposta (perché alla fine di questo si tratta, essendo l’Ires tendenzialmente minore dell’Irpef).

Tale modo di ragionare dell’Agenzia si presta a severe critiche.
Se è vero che il trust non può essere riconosciuto nei casi in cui il disponente non ha perduto il controllo dei beni, non è men vero che tale perdita di controllo non può certo essere limitata all’ambito tributario. Se il disponente non ha perso il controllo dei beni non v’è dubbio che il trust non sarà riconoscibile anche in ambito civilistico. Ed è peraltro tutto da dimostrare, come meglio si vedrà più oltre, che se un trust contiene una delle clausole indicate dall’Agenzia allora ciò significa che il disponente non ha perso il controllo dei beni in trust.

Così operando, inoltre, l’Agenzia viene a rimuovere in via interpretativa forme giuridiche utilizzate dal contribuente che possono condurre, in ipotesi, a un risparmio di imposta e ciò in violazione del principio della riserva di legge. Come giustamente rilevato da autorevole dottrina tale rimozione di forme giuridiche può essere rimossa solo facendo ricorso a disposizioni antielusive scritte – generali, quasi generali o specifiche – le quali autorizzano una siffatta rimozione sotto forma di inopponibilità al fisco .

Viene pertanto da chiedersi come possa, in futuro motivarsi una rettifica o un accertamento da parte dell’ufficio fondandosi esclusivamente sul contenuto della circolare, laddove una specifica norma, l’art. 37, comma 3, cit., richiede invece una prova specifica ovvero presunzioni gravi, precise e concordanti.
Sarà compito dell’Amministrazione Finanziaria, con prove rigorose, dimostrare che il disponente non ha perduto il controllo dei beni in trust (e allora il trust non produrrà effetti neanche sotto il profilo civilistico). Non si potrà pertanto ritenere integrata tale prova sulla base della mera presenza nell’atto istitutivo delle clausole esemplificate, che, come si vedrà, non implicano di per sé riserva di controllo dei beni in trust in capo al disponente salvo – beninteso – il (raro) caso in cui, a causa di un’errata redazione dell’atto, davvero risulti che il trustee sia privo di alcun potere decisionale .

Si impone inoltre un’ulteriore riflessione.
Se trust siffatti trust sono da ritenersi “inesistenti” (e quindi inopponibili al fisco), occorre chiedersi se tale “inesistenza” si rifletta sul trattamento tributario dell’operazione ai fini delle impose indirette, cioè dell’imposta di donazione, nel cui ambito, com’è noto , l’Agenzia ritiene attratti tutti i trust, indipendentemente dalla loro causa concreta, nonché delle imposte ipotecaria e catastale, qualora essi abbiano oggetto beni immobili.
Non è chi non veda la contraddittorietà di un sistema di imposizione in base al quale la stessa operazione negoziale viene a essere qualificata come “esistente” ai fini delle imposte di donazione e ipocatastali e invece “inesistente” ai fini delle imposte sui redditi .
Sulla base dello scenario sopra delineato è possibile ora analizzare singolarmente le clausole che, a detta dell’Agenzia, rend (ono) erebbero il trust inesistente ai fini fiscali.

Il discorso fin qui fatto è infatti servito a individuare, per quanto possibile, i criteri da utilizzare per individuare quando il trust non possa dirsi riconoscibile a causa della mancata perdita di controllo dei beni. In questo caso, non producendo il trust alcun effetto, ci pare non si ponga alcun problema dal punto di vista reddituale, poiché i beni non sono mai usciti dal patrimonio del disponente, per cui non v’è dubbio che l’imposizione dovrà avvenire in capo a costui.
Con riguardo invece alla circolare in commento riteniamo, invece, che si possa (o forse si debba) ragionare in modo diverso al fine di valutare la portata delle clausole esemplificate dall’Agenzia come “prove” dell’inesistenza del trust ai fini fiscali .

La questione della soggettività giuridica del trust testualmente affermata dalla legge, ma in varie ipotesi concretamente disapplicata, va a nostro modo di vedere valutata da due angoli visuali: quello del disponente e quello dei beneficiari.
Se si pone mente alla ragione per cui i redditi del trust in alcuni casi sono tassati direttamente in capo ai beneficiari, ciò è perché essi giuridicamente (e quindi fiscalmente) appartengono ai beneficiari stessi, indipendentemente dalla loro materiale apprensione. E tale ragionamento andrebbe esteso anche ai trust i cui beneficiari finali sono definitivamente individuati e possa operare la regola che consente l’immediata cessazione del trust. Anche in questo caso, infatti, i beni possono considerarsi giuridicamente (e quindi anche fiscalmente) appartenenti ai beneficiari e il trustee, pertanto, mero soggetto interposto tra disponente e beneficiari: il trust null’altro ha prodotto se non un effetto analogo a quello di una donazione diretta dei beni.
Analizziamo ora la vicenda dal lato del disponente. Da tale angolo visuale l’Agenzia, per imputare a costui i redditi del trust utilizza il criterio della mancata perdita di controllo dei beni. Tale criterio non convince, perché, come già sopra evidenziato, il discrimen tra controllo lecito e illecito dei beni in trust è molto labile e condurrebbe a decisioni giudiziarie caratterizzate da un ampio grado di incertezza. L’Agenzia, dal canto suo, si è attribuita, con la circolare in commento, un alto grado di discrezionalità nel ritenere un trust inesistente o meno, con deprecabile diminuzione di certezza in capo agli operatori.

La questione va posta diversamente. Non si tratta, appunto, di ragionare sul tema del (la mancata perdita del) controllo, quanto di valutare se in capo al disponente si sia verificata una diminuzione patrimoniale permanente e definitiva in favore del trustee (e, quindi, dei futuri beneficiari).
Tale criterio consente di dare una lettura più equilibrata della circolare, espungendo da essa tutte le clausole diverse da quelle interpretabili alla luce di tale criterio.
Potranno pertanto considerarsi trust fiscalmente interposti soltanto quelli contenenti clausole tali da rendere la diminuzione patrimoniale in capo al disponente non permanente.

Analizzando quindi le clausole sulla base di tale criterio, di quelle elencate nella circolare ne rivestono rilievo significativo soltanto tre:
a) la clausola che consente al disponente di far cessare liberamente in ogni momento il trust a proprio vantaggio (e non anche a vantaggio di terzi, perché in tal caso non si può certo dire che il disponente, a seguito dell’istituzione del trust non abbia subito una permanente diminuzione patrimoniale);
b) la clausola che consente al beneficiario di far cessare liberamente in ogni momento il trust a proprio vantaggio, salvo correggere la circolare sul punto, nel senso che in tal caso il trust è da considerarsi non interposto con riferimento alla persona del disponente, ma appunto al beneficiario (è, in sostanza, come una donazione diretta);
c) la clausola che consente al disponente di designare in qualsiasi momento sé stesso quale beneficiario, purchè sia l’unico beneficiario (che è poi una variante di quella precedente, perché una volta che il disponente ha designato sé stesso quale unico beneficiario ha il potere di fare cessare immediatamente il trust).

Altre clausole, invece, vanno valutate nel loro concreto modo di operare.
La clausola che consente al disponente di modificare nel corso della vita del trust i beneficiari, appare essere una sottospecie di quella che consente al disponente di designare sé stesso quale beneficiario, e solo in questo caso potrebbe dirsi che non vi sia stata diminuzione patrimoniale definitiva; se invece il disponente fosse espressamente escluso dalla rosa dei possibili beneficiari non v’è dubbio alcuno in merito all’effettiva diminuzione patrimoniale in capo al disponente.

La clausola secondo cui il beneficiario del trust ha il diritto di ricevere attribuzioni di patrimonio dal trustee mi pare anch’essa una sottospecie di quella che consente al beneficiario di far cessare liberamente in ogni momento il trust a proprio vantaggio; ma in questo caso il trust, eventualmente, sarà da considerarsi interposto sempre con riferimento alla persona del beneficiario e non del disponente.

Rimangono quattro esempi di clausole. La quarta (che è la penultima dell’elenco) non pare essere molto diffusa nella prassi dei trust interni. Tuttavia sembra ovvio affermare che, se il disponente ha la facoltà di attribuire redditi o beni in trust o concedere prestiti a soggetti da lui individuati, vuol dire che il trustee, cui detti beni sono intestati, non ha alcun potere riguardo ai beni stessi, con conseguente non riconoscibilità del trust anche sotto il profilo civilistico.

Le altre clausole, invece, di per sé non integrano casi in cui il trasferimento dei beni dal disponente al trustee non è effettivo e definitivo, per cui se si accoglie il criterio proposto i redditi saranno correttamente da imputare al trustee e/o ai beneficiari secondo che il trustee sia trasparente, opaco o misto.
Ad esempio, il fatto che il trustee non possa esercitare alcuni poteri senza il consenso del disponente (es. il potere di alienare uno dei beni in trust), non significa certo che il trasferimento del bene in favore del trustee sia – dal punto di vista del patrimonio del disponente – transeunte. Così come irrilevante è il fatto che il trustee debba tenere conto delle indicazioni del disponente. Altro è infatti dover “tenere conto”, ferma restando l’autonomia decisionale del trustee; altro è che il trustee “ubbidisca” al disponente, nel qual caso si ricade nella situazione di mancata perdita di controllo dei beni e, quindi, di non riconoscibilità del trust anche sul piano civilistico.
La circolare chiude con una sorta di “clausola generale”, secondo cui tutte le volte in cui i poteri del trustee sono “limitati” o “condizionati” dalla volontà del disponente o dei beneficiari, si avrebbe inesistenza fiscale del trust.

E’ quasi inutile osservare come tale affermazione accresca in maniera esponenziale l’incertezza degli operatori e attribuisca esorbitanti poteri discrezionali in capo all’Agenzia, con alto rischio di moltiplicazione del contenzioso.

Ribadiamo, allora, l’opinione più volte espressa nel corso di questo lavoro, secondo cui, potrebbe darsi inesistenza fiscale del trust, con conseguente tassazione dei redditi in capo al disponente (che è l’obiettivo che si prefigge l’Agenzia con l’interpretazione contenuta nella circolare) in due soli casi:
a) quando risulti che il disponente non ha perduto il controllo dei beni in trust, nel qual caso il trust non pare riconoscibile neanche sul piano civilistico;
b) quando risulti che la diminuzione patrimoniale del disponente non è definitiva, per cui costui, in qualsiasi momento della vita del trust, può chiedere al trustee la restituzione dei beni.

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