Può integrare gli estremi del reato di diffamazione anche soltanto il titolo di un "pezzo" giornalistico e l'accostamento suggestivo di immagini. (Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 12012 del 16 maggio 2017)

In tema di esercizio dell’attività giornalistica, il carattere diffamatorio di un articolo non va valutato sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni in esso contenute, dovendosi, invece, procedere ad un giudizio complessivo, nel quale, tuttavia, il titolo può assumere una specifica valenza allorché sia formulato in termini tali da recare un’affermazione compiuta, chiara, univoca ed integralmente percepibile senza la lettura del testo, risultando, così, idoneo di per sé, proprio in ragione della sua icastica perentorietà, ad impressionare e fuorviare il lettore più frettoloso, ingenerando giudizi lesivi dell’altrui reputazione; peraltro, la valutazione della idoneità del solo titolo a rivestire una potenzialità diffamatoria, va effettuata considerando che tale profilo ha assunto, nel tempo, maggiore rilevanza in considerazione della rapidità di diffusione delle informazioni attraverso la rete internet, che induce i fruitori ad un’informazione sintetica, spesso limitata alla lettura dei soli titoli presenti nella relativa home page.

Commento

(di Daniele Minussi)
La velocità del flusso informativo, l'atteggiamento di visualizzazione affrettatamente compulsiva dei "lettori" modella muove frontiere: così non importa se leggendo il testo dell'articolo di giornale emerge una ricostruzione dei fatti più dettagliata e rispondente ai dati oggettivi. Ciò che conta è che il "colpo d'occhio" sul titolo e le fotografie a corredo del "pezzo" (le immagini ritraevano la persona del politico indagato e, accanto, una distinta foto di un noto boss della mafia) siano connotate da una propria valenza diffamatoria, ancorchè dissociata dal contenuto dell'articolo.

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