La comune e reale volontà dei contraenti prevale sul tenore letterale del contratto. (Cass. Civ., Sez. III, n. 8745 del 15 aprile 2011)

Qualora il contenuto del contratto, come appare stipulato, non corrisponda alla comune, reale volontà delle parti, sia che l'erronea formulazione o trascrizione debba ascriversi alle parti medesime o ad un terzo da loro incaricato ed ancorché tale discordanza non emerga a prima vista, ma debba costituire oggetto di accertamento, la situazione non integra alcuna delle fattispecie dell'errore ostativo e, di conseguenza, non trova applicazione la normativa dell'annullamento del contratto per tale vizio. Nella suddetta ipotesi, sulla lettera del contratto deve prevalere la reale, comune volontà dei contraenti, desumibile dal giudice di merito sulla scorta delle trattative e di tutto il materiale probatorio acquisito.

Commento

(di Daniele Minussi)
L'enunciazione del principio di cui alla massima in commento è addirittura banale: non contano le parole, vale lo spirito....
Ma il problema è proprio l'ermeneutica, il rinvenimento di questo "spirito", costituito dalla comune volontà delle parti. La cosa si fa ancora più complessa ogniqualvolta possa essere invocato l'opposto principio secondo il quale "in claris non fit interpretatio".
In definitiva il perno della pronunzia è costituito dalla solidità dell'accertamento, quale che sia, dei contorni del comune intento dei contraenti. Quand'anche il contenuto di questo comune intento si palesasse difforme rispetto al tenore letterale dell'accordo, esso prevarrebbe su quest'ultimo.

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