Tribunale di Caltanissetta del 2015 numero 407 (24/06/2015)



Il danno tanatologico (cioè il danno da morte strettamente inteso) è sempre stato escluso dalla giurisprudenza di legittimità. Ciò in quanto la perdita della vita da parte della vittima primaria non può comportare il sorgere in capo alla vittima stessa di un diritto di credito al risarcimento trasmissibile agli eredi, per la semplice ragione che nel momento in cui si realizza la lesione il soggetto cessa di esistere e dunque non può acquistare alcunché. Inoltre osterebbe alla risarcibilità di tale voce di danno, il fatto che nel sistema della responsabilità civile sono risarcibili unicamente i danni conseguenza, mentre la perdita della vita costituirebbe l’eventus damni eventualmente foriero di conseguenze pregiudizievoli nei confronti dei terzi coinvolti a vario titolo in tale vicenda (si fa riferimento principalmente ai prossimi congiunti, ma anche al danno da lesione del credito derivante dalla morte del debitore di una prestazione infungibile).

Tuttavia, ciò non toglie che un soggetto che abbia subito un trauma tanto grave da condurlo a un esito letale, possa aver sofferto sia sotto il profilo fisico che sotto il profilo psichico a causa della percezione delle conseguenze catastrofiche delle lesioni subite. Ebbene tale pregiudizio di ordine morale, in quanto conseguenza pregiudizievole di una lesione ingiusta del diritto alla salute, determinerà il sorgere di un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 20159 c.c., che potrà essere richiesto dagli eredi, nella misura in cui la vittima abbia, in concreto, avuto percezione delle conseguenze catastrofiche dell’evento.

Nondimeno deve rilevarsi come la sentenza n. 1361/2014 dell S.C., ponendosi in consapevole contrasto con tale tradizionale orientamento, ha affermato il principio secondo il quale deve ritenersi risarcibile agli eredi, in quanto tale, il danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni riportate a seguito di incidente stradale. Tuttavia:

Se è assolutamente condivisibile l’affermazione che la vita in quanto tale è il bene primario, sovraordinato a qualsiasi altro bene giuridico di rilievo costituzionale ciò non implica necessariamente che il suo venir meno determini il diritto a un ulteriore risarcimento (al di là delle voci di danno riconducibili al danno catastrofale e al danno biologico terminale).

L’affermazione per cui la lesione della vita va garantita in sede civile in via autonoma, non va oltre la petizione di principio. Difatti, un dato è difficilmente contestabile: e cioè che attraverso il risarcimento del danno tanatologico non si vuole, di certo, offrire una maggiore tutela al bene della vita in quanto tale. La vita, purtroppo, una volta venuta meno non può essere di certo ripristinata; né può seriamente pensarsi che possa essere offerto un ristoro a colui che la vita ha perso, giacché questi una volta defunto non può essere risarcito o reintegrato di alcunché.

Con tale considerazione questo giudice non intende – come più volte fatto dalla giurisprudenza tradizionale – sottolineare soltanto l’inammissibilità sul piano logico della categoria del danno tanatologico…si vuole piuttosto sottolineare l’antinomia sul piano sostanziale del concetto di danno tanatologico: proprio perché con la morte tutto finisce, e a questo fenomeno non è possibile porre alcun rimedio, tentare di fornire rimedio a ciò che per natura non può essere rimediato è un’operazione ermeneutica forzata che – mossa da un apparente intento antiformalista – si rivela essenzialmente scorretta. E allora, se così è, ciò che tale orientamento intende piuttosto rafforzare è la tutela risarcitoria delle vittime “di rimbalzo”, vale a dire i parenti del defunto. Ma così facendo si corre il rischio di snaturare la funzione tipica del sistema risarcitorio, che non è punitiva ma reintegrativa, con un evidente effetto duplicatorio delle poste di danno risarcibili.

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