Tribunale di Bassano del Grappa del 1993 (17/02/1993)


In tema di trasferimento di azioni, l'inserimento nello statuto della clausola di prelazione non esclude la natura parasociale del patto ed ha la sola finalità di renderlo opponibile ai terzi, quanto meno per impedire che costoro ne possano allegare l'ignoranza.Il Tribunale (omissis).osserva:assume nella specie rilievo pregiudiziale l'accertamento della natura della clausola di prelazione, posto che nel caso in esame la società reclamante si duole, rifiutando l'iscrizione nel libro soci della originaria ricorrente, dell' omessa osservanza delle regole sancite dall' art. 7 dello statuto, che disciplina appunto il diritto di prelazione riconosciuto ai soci; l'inserimento della clausola nello statuto impone quindi di verificarne, innanzitutto, la rilevanza e la invocabilità anche da parte della società; nessuno dubita, difatti, che il patto concluso dai soci fuori dal contratto sociale regola solo i rapporti tra costoro e certo non legittima la società emittente le azioni (o quote) a sindacarne il rispetto. E' noto, ancora, che in proposito si rinvengono due orientamenti, l'uno che riconduce il diritto di prelazione alla categoria dei diritti individuali del socio, escludendo ogni interesse della società, e l' altro che, al contrario, ne assume - in conseguenza della sua collocazione - la sicura valenza sociale, con il logico corollario, che il primo orientamento nega, della facoltà di rifiutare l'iscrizione al libro soci e di agire per vedere accertata giudizialmente la inefficacia - o per alcuni la nullità - del trasferimento a terzi senza la preventiva denuntiatio.Il Collegio ritiene di aderire al primo orientamento, certo non minoritario riconducendo alla clausola di prelazione un prevalente ed anzi esclusivo interesse del socio, volto a preservare la struttura del gruppo sotto il profilo personale, evitando la partecipazione di terzi estranei al medesimo gruppo e, nel contempo, a mantenere immutata la sua posizione, patrimoniale e amministrativa, rispetto al capitale sociale. L'inserimento nello statuto non esclude, dunque, la natura parasociale del patto ed ha la sola finalità di renderlo opponibile ai terzi, quanto meno per impedire che costoro ne possano allegare l'ignoranza.Tale ricostruzione si rende preferibile, innanzitutto, per la mai sufficientemente indagata conseguenza che, altrimenti ragionando, la clausola di prelazione finirebbe per sovrapporsi a quella di gradimento, pur con la peculiarità che quest'ultima conserverebbe in virtù del potere di interdizione riconosciuto all' ente sociale, potiore rispetto ad ogni altro interesse dei singoli soci (la società, difatti, non si limita col gradimento a vagliare il rispetto delle regole statutarie ma esprime un suo esclusivo potere in ordine alla partecipazione di nuovi soci). Peraltro la spiegazione che, per la clausola di prelazione, il contrario orientamento esprime circa l'interesse della società a vedere osservate le regole, è assai poco convincente quando non dà conto di un simile interesse diverso e distinto da quello che, tradizionalmente, si persegue col ricorso alla clausola di gradimento.Né sembra cogliere nel segno la avversa tesi quando nega la natura para-sociale della clausola in conseguenza dell'asserita modificabilità a maggioranza, secondo le regole proprie delle delibere assembleari; come già efficacemente obiettato la fragilità di tale argomentazione risiede nella inversione (metodo) logica tra la natura da riconoscere al patto e le conseguenze che da questa ne discendono, anche in tema di modificabilità (ivi compresa la soppressione).E' noto, in proposito, che la migliore dottrina, proprio in considerazione della diversa natura che ravvisa per la clausola di prelazione rispetto quella di gradimento nonché dei differenti interessi che le stesse perseguono, propugna la modificabilità della prima all'unanimità e, della seconda, a maggioranza.Neppure può sottacersi che l'opposto orientamento sorvola sulla evidente disparità che il potere attribuito alla società finirebbe col produrre a seconda che le azioni (o quote) trasferite appartengano, o meno, al capitale di maggioranza, atteso che solo nel secondo caso la società, attraverso i suoi organi, reagirebbe alla violazione del patto (conseguenza questa ben spiegabile, al contrario, per la clausola di gradimento perché strettamente connaturata alla sua funzione).Ma dove il contrario orientamento mostra la sua maggiore debolezza è quando sostiene che la società deve limitarsi, dopo aver negato l' iscrizione del terzo, a far accertare, anche giudizialmente, l' inefficacia del trasferimento mentre il socio, per il quale la declaratoria di inefficacia è strumentale all' esercizio del diritto di prelazione, deve anche contestualmente manifestare la sua disponibilità all' acquisto delle azioni col che si finisce per sostenere che la società si limita ad un controllo formale, finalizzato non al perseguimento di un interesse proprio ma, piuttosto, del socio in via esclusiva (interesse che pure si assume come complementare rispetto a quello della società), socio che, in definitiva, usufruendo dell' intervento della società, viene posto in condizione di esercitare la prelazione.Dunque, appartenendo il diritto di prelazione, anche se scaturente da clausola statutaria, al novero dei diritti individuali del socio, deve negarsi alla società la legittimazione, in ipotesi di violazione, a rifiutare l' iscrizione nel registro soci come di agire giudizialmente per la declaratoria di inefficacia del trasferimento. (omissis).

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