Lo stato di necessità



Ai sensi dell'art. 2045 cod. civ. , nota1 si trova in stato di necessità colui che commette un fatto dannoso costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato, né era altrimenti evitabile. Tale formulazione ricalca quella contenuta nel codice penale (art. 54 cod. pen. apri ), dalla quale si discosta soltanto laddove non pone l'ulteriore requisito della proporzionalità tra il fatto commesso e il pericolo di danno.

A differenza della legittima difesa, in capo a chi agisce in stato di necessità residua un'indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice. La ragione della previsione sta nel fatto che l'azione dannosa, nel caso in esame, si compie in danno di un soggetto terzo, mentre, nella legittima difesa, essa è rivolta verso il soggetto che, per primo, ha con la propria condotta esposto a pericolo un bene giuridico altrui.

Il differente grado di meritevolezza di tutela della posizione del danneggiato nella legittima difesa piuttosto che nello stato di necessità si riflette nell'obbligo di corrispondere un'indennità solo nell'ultimo caso.

Non vi è uniformità di opinioni in merito alla qualificazione giuridica dello stato di necessità.

1) L'opinione prevalente ravvisa nell'atto dannoso necessitato un'ipotesi tipica di atto lecito dannoso, produttivo di una responsabilità "soggettiva" fondata sulla colpa. Lo stato di necessità rappresenterebbe una esimente il cui effetto consisterebbe nell'escludere l'ingiustizia del danno cagionato al terzo.

2) Secondo altra opinione, l'azione, ancorché necessitata, in quanto produttiva di un danno, non perderebbe i connotati dell'atto illecito: essa rappresenterebbe, infatti, una comune ipotesi di responsabilità per fatto proprio, in cui lo stato di necessità assume, per la sua incidenza sull'azione dannosa, il senso e il valore di causa parzialmente esoneratrice della responsabilità. Si tratta della ricostruzione, che qualifica lo stato di necessità alla stregua di una causa di esclusione dell'antigiuridicità del fatto, in conformità al modello penalistico.

3) Secondo un terzo orientamento , lo stato di necessità rientrerebbe nel sistema della responsabilità oggettiva.

4) Infine, secondo un'ulteriore ricostruzione , lo stato di necessità configurerebbe un'autonoma fattispecie di responsabilità civile, fondata sul criterio di imputazione dell'ingiustificato arricchimento e caratterizzata dalla particolare tecnica di riparazione, rappresentata dall'equa indennità.

5) La giurisprudenza non ha mai affrontato la questione direttamente. Spesso si è limitata ad affermare che il fatto dannoso deve essere stato causato da un comportamento cosciente e volontario del soggetto necessitato. Talvolta è stato affermato che, oltre alla coscienza e volontà, occorre, in ogni caso, che la condotta del soggetto necessitato sia stata anche oggettivamente contraria ad una norma di legge o di comune prudenza (Cass. Civ. Sez. III, 2206/80 ). Ciò tuttavia senza chiarire se questo implichi un integrale richiamo ai parametri della colpa (e, quindi, anche alla prevedibilità ed evitabilità del danno) oppure se valga quale presupposto obiettivo della violazione di una regola cautelare. Pare, dunque, che, ad avviso della giurisprudenza, ove manchi la coscienza e volontà del fatto reattivo, si sconfini nel caso fortuito.Sennonché una siffatta impostazione porterebbe a concludere che l'ubriaco, il quale compia il fatto necessitato non dovrebbe rispondere del danno, non essendo imputabile (sempre che l'imputabilità non sia dolosa o colposa). Si tratta, come appare evidente, di una conclusione non condivisibile.

Sul piano esegetico si deve constatare come la norma, ponendosi in rapporto di eccezione rispetto alla regola generale dell'art. 2043 cod. civ. , non richiede la colpa ai fini del sorgere dell'obbligazione indennitaria. L'unico criterio di imputazione delle conseguenze dannose è costituito, dunque, dal nesso di causalità tra fatto necessitato e danno. Da questo punto di vista, pare inconfutabile la qualificazione in termine di responsabilità oggettiva.

Per quel che concerne i presupposti dello stato di necessità, essi sono da individuarsi nella attualità e nella inevitabilità.

A) Il primo presupposto dello stato di necessità è costituito dal pericolo attuale di un danno grave alla persona.

Il danno grave alla persona non consiste soltanto nella lesione della vita o dell'integrità fisica: esso può essere dato anche dall'offesa di qualsiasi diritto inviolabile dell'uomo (art. 2 Cost. ), sia che si tratti di beni penalmente tutelati (libertà, onore, riservatezza, pudore), sia che si tratti di interessi protetti soltanto da norme extrapenali (ad es. il nome, l'immagine).

Il danno minacciato deve essere "grave", o in senso qualitativo (allorché il bene sia di tale importanza primaria che la sua offesa è grave per definizione: così, ad esempio, nel caso della vita), o in senso quantitativo (allorché il bene possa essere leso in gradi differenziati (ad es. rispetto al bene dell'integrità fisica, altro è il pericolo della perdita di una gamba, altro quello di ustionarsi un dito).

Il pericolo dev'essere "attuale": deve sussistere, cioè, l'imminenza rispetto al probabile verificarsi dell'evento sfavorevole, essendo già in atto la situazione di pericolo, la quale, se fosse soltanto futura, consentirebbe al soggetto minacciato di porre in essere, al fine di evitare il danno, comportamenti non pregiudizievoli per i terzi.

Il pericolo dev'essere, altresì, "involontario": tale requisito implica che il soggetto non abbia determinato né intenzionalmente né colposamente la causa del pericolo. Pertanto, non può invocare lo stato di necessità, l'automobilista che, avendo violato le regole della circolazione (ad es. non osservando il limite di velocità), si sia trovato nella necessità di una manovra di emergenza produttiva di un evento causa di danni.

Infine, il pericolo non deve risultare "altrimenti evitabile", e ciò postula che nessun altro mezzo alternativo lecito, di pari efficacia, sia disponibile per scongiurare il pericolo. La valutazione dev'essere effettuata in concreto, tenendo conto cioè delle risorse disponibili in quella specifica situazione per quello specifico soggetto.

B) Il secondo presupposto consiste nel fatto necessitato dannoso.

Questo presupposto deve presentare, a sua volta, le caratteristiche della costrizione, della necessità e, secondo la giurisprudenza e la dottrina, anche delle proporzione, così come richiede la corrispondente previsione penalistica.

La costrizione implica che l'agente abbia subito l'alternativa determinata dal conflitto di interessi rilevante nei confronti dell'agente. Tale requisito è quasi implicito nei casi in cui il soggetto esposto al danno è lo stesso soggetto agente: se l'alternativa è quella tra subire un danno e cagionarlo a un terzo, si può dire che la costrizione è in re ipsa.

Il requisito della necessità implica che la condotta necessitata, oltre ad essere idonea a evitare il pericolo, sia in concreto la meno lesiva tra quelle parimenti efficaci che il soggetto avrebbe potuto tenere: non è, ad esempio, necessario procurare la morte di chi attenti alla propria vita, quando la salvezza può essere ottenuta con un minor danno.

Nel silenzio della legge, si discute, poi, se, ai fini della qualificazione dello stato di necessità, debba sussistere, così come richiede l'art. 54 cod. pen. , un rapporto di proporzionalità, tra il danno arrecato e il danno di cui si subisce la minaccia.

Parte della dottrina lo esclude, non soltanto sulla base del dato testuale di differente formulazione tra norma civile e norma penale, ma anche sull'osservazione che i beni in conflitto non potrebbero essere posti su un piano omogeneo di valutazione, in quanto, da una parte, vi è il bene-persona oggetto di minaccia, dall'altro, vi è non il bene-persona in quanto tale, ma il solo riflesso patrimoniale della lesione di tale bene, di cui il diritto civile esclusivamente di occupa.

Tale prospettiva è respinta, tuttavia, da altra parte della dottrina e dalla giurisprudenza.

Si è osservato, infatti, che, anche per il diritto civile, gli interessi della persona non si pongono tutti sullo stesso piano, sicché non potrebbe beneficiare della scriminante chi, per salvaguardare un proprio minore interesse, non esiti a ledere, ad esempio, la vita del terzo. D'altra parte, il requisito della proporzionalità è richiesto dalla norma sulla legittima difesa e non si colgono adeguate ragioni per differenziare le rispettive discipline nota2.

Tra il fatto commesso dall'agente e il danno subito dal terzo, deve sussistere, inoltre, un nesso di causalità: occorre, cioè, che la condotta dell'agente sia consistita in un'azione diretta a cagionare danno. Quando, invece, tenuto conto di tutti gli elementi della fattispecie concreta, risulti che l'azione del danneggiante sia stata diretta soltanto a giovare al soggetto in pericolo, il quale dall'opera di salvataggio tentata a suo favore abbia accidentalmente ricevuto un danno sostanzialmente non dissimile da quello che gli sarebbe derivato in mancanza di detta azione, manca il nesso di causalità tra fatto e danno nota3 .

nota1

Note

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"Mentre la legge non presta il suo braccio per soccorrere il debole che non ha la forza per far trionfare il suo diritto poziore, d'altra parte assolve il prepotente o l'astuto che seppe vincere nella lotta. Or non è conforme a giustizia far dipendere dalla scaltrezza del più forte, o dal capriccio della sorte la soluzione del conflitto fra diritti qualitativamente e quantitativamente diseguali. Di un diritto che resta spettatore indifferente alla lotta accanita che si dibatte tra due interessi costituiti, non può dirsi che sua funzione sia la forza, ma l'impotenza".Con queste parole, in uno scritto del 1898, Coviello stigmatizzava l'assenza, nel codice civile del 1865, come in quello francese, di un'espressa norma relativa allo stato di necessità. Si veda, altresì, Donzella, Lo stato di necessità, il caso fortuito e la c.d. causalità parziale (nota a sent. Tribunale di Sanremo, 28/02/1992), in Riv. dir. comm., vol. II, 1992, p. 324.
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nota2

Recentemente, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza del requisito della proporzionalità e, quindi, dello stato di necessità, nel fatto dell'agente di polizia che, sopraggiunto immediatamente dopo la commissione di una rapina in una farmacia, mentre il rapinatore si stava allontanando, per sottrarsi alla cattura, impugnando una pistola a scopo difensivo, esplodeva all'indirizzo dello stesso, che si proteggeva con il corpo del farmacista, un colpo di arma da fuoco, il quale attingeva anche un cliente. Secondo la S.C., tale ipotesi rientra piuttosto nella previsione di eccesso colposo nell'uso legittimo di armi, piuttosto che in quella dello stato di necessità: infatti, i requisiti della costrizione e della necessità presuppongono la proporzione tra l'interesse che l'adempimento del dovere di ufficio tende a soddisfare e l'interesse che viene offeso per rendere possibile tale adempimento e detta proporzione va esclusa nella specie, in presenza di una situazione in cui la tutela dell'incolumità fisica e della vita delle persone presenti nella farmacia, beni di cui era ben prevedibile la lesione in caso di uso dell'arma, avrebbe dovuto prevalere sull'interesse alla cattura del rapinatore ed al recupero della refurtiva (Cass. Civ. Sez. III, 2091 /00 ).
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nota3

Cass. Civ. Sez. III, 2238 /81 , in un caso in cui l'indennità era stata richiesta dalla passeggera di un'automobile rimasta ferita per la brusca frenata che il conduttore di tale veicolo era stato costretto a compiere per evitare la collisione con altro veicolo improvvisamente immessosi sulla strada.
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Bibliografia

  • DONZELLA, Lo stato di necessità,il caso fortuito e la c.d. causalità parziale, Riv. dir. comm., II, 1992

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