Limiti alla distribuzione degli utili (società in nome collettivo)



L 'art. 2303 cod. civ. contiene la regola secondo la quale non si può fare luogo a ripartizione di somme fra soci se non per utili realmente conseguiti. La disposizione dev'essere coordinata con quella, più generale, di cui all'art. 2262 cod. civ. (dettata in tema di società semplice, ma pacificamente applicabile anche ai tipi sociali più strutturati), ai sensi del quale ciascun socio ha diritto, salvo patto contrario, a percepire la propria parte di utili in esito all'approvazione del rendiconto. Ciò premesso, l'erogazione al socio della quota parte del risultato attivo della gestione sociale è condizionata alle verifiche di cui infra. Anzitutto occorre che venga approntato ed approvato il bilancio. Quest'ultimo deve inoltre presentare plusvalenze di periodo. Verificandosi perdite il II comma dell'art. 2303 cod. civ. si affretta a prescrivere il divieto di ripartire utili "fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente". Il senso della norma è chiaro. Sotto il primo profilo la stessa qualificazione delle erogazioni fatte ai soci in chiave di "utili" in presenza di perdite a valere sul capitale sociale sarebbe assolutamente contestabile. In effetti in una siffatta situazione non potrebbe prospettare l'esistenza di utili in senso tecnico: l'eventuale distribuzione di somme ai soci darebbe luogo ad un'inammissibile depauperamento del patrimonio della società, in definitiva cagionando un rimborso "mascherato" dei conferimenti. Secondariamente occorre comprendere il ruolo e la portata del capitale sociale nelle società a base personale. Se la funzione di esso appare più orientata verso l'interno della compagine sociale (venendo a connotare la posizione di ciascuno dei soci in relazione al diritto agli utili ed alla quota di liquidazione), allora un riferimento così preciso all'integrità del capitale appare probabilmente pienamente giustificabile soltanto in chiave di una tutela embrionale dei creditori sociali. La protezione del credito dei terzi è infatti maggiormente affidata alla illimitata e solidale responsabilità di ciascuno dei soci, elemento per lo più di maggior solidità rispetto a quello costituito dalla consistenza di un capitale sociale la cui misura spesso esprime valori risibili nota1.

In ogni caso la norma in esame intende sicuramente esprimere il contemperamento di diverse esigenze. Da una lato il diritto del socio a conseguire il risultato patrimoniale della gestione, dall'altro la necessità di garantire la conservazione e l'integrità del patrimonio della società necessario per tutelare i creditori e per poter utilmente proseguire nella gestione sociale nota2.

E' possibile, una volta che siasi appurata l'insussistenza di perdite ed approvato il rendiconto, procedere ad accantonamenti quand'anche taluno dei soci si opponga? Anche se nelle società a base personale il diritto a percepire i risultati positivi della gestione non è condizionato ad una deliberazione assembleare, al quesito è stata data una risposta affermativa, quando tali accantonamenti siano giustificati da regole prudenziali (Cass. Civ. Sez. I, 4454/95 ).

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Note

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Si badi al riferimento effettuato dalla norma al capitale sociale e non al patrimonio sociale. Se il capitale costituisce la misura di indisponibilità del patrimonio a tutela dei terzi, è chiaro come l'indicazione della misura del primo pesso espressa da valori assai tenui non pare in grado di costituire un efficace baluardo a protezione dei diritti dei creditori sociali.
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Bavetta, La società in nome collettivo, in Tratt. di dir. priv., dir. da Rescigno, vol. XVI, Torino, 1985, p. 141.
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Bibliografia

  • BAVETTA, La società in nome collettivo, Torino, Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, vol. 16, t. II, 1985

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