La prova del danno per intervenuta svalutazione della moneta (obbligazioni pecuniarie)



L'acquisizione della regola in base alla quale il creditore può essere risarcito, ai sensi del II comma dell'art. 1224 cod.civ., del danno (maggiore rispetto alla liquidazione forfettariamente prevista per legge con l'attribuzione degli interessi moratori) che discende dalla svalutazione della moneta anche in relazione alle obbligazioni pecuniarie non adempiute nel termine, ha posto in evidenza il problema della prova e della misura di questo pregiudizio.
In un primo tempo si pretese che il creditore desse conto rigorosamente di un diverso impiego della moneta, impiego che lo avrebbe posto al riparo dalla perdita di valore di essa nota1 .
Soltanto in esito ad un faticoso percorso interpretativo venne enunciata la tesi in base alla quale si può presumere che la svalutazione monetaria, quale fenomeno generale, non può non svolgere la propria incidenza sul patrimonio di qualsiasi creditore (Cass. Civ. Sez. III, 5670/78).
La Cassazione intervenne tuttavia a frenare generalizzazioni ritenute eccessive, inaugurando una linea interpretativa mediana che da un lato respingeva ogni presunzione automatica, dall'altro conferiva al creditore il potere di dare ingresso, facendo uso di qualsiasi mezzo di prova (ed anche con presunzioni, sia pure ancorate a specifici fatti), ad ogni deduzione intesa a far valere il danno subito per effetto della perdita di valore della moneta successiva al ritardo qualificato dalla mora nel pagamento (Cass. Civ. Sez. Unite, 3776/79).
Successivamente, pur essendosi affermata parallelamente in giurisprudenza anche una linea intesa a dare rilevanza quantomeno agli indici ISTAT, quale criterio per un danno subito da chiunque (Cass. Civ. Sez. II, 123/83 ), si può dire sia stato introdotto un sistema di presunzioni ritagliate per così dire "su misura" rispetto a ciascun tipo di creditore. Questa impostazione, pur rifiutando qualsiasi apriorismo, dovendo pur sempre il creditore esser ritenuto onerato della prova del danno secondo i principi generali (modalità di impiego del denaro e determinazione del lucro che ne sarebbe derivato), ammette tuttavia che la prova possa essere anche raggiunta mediante presunzioni. In questo senso contano le caratteristiche soggettive del creditore. Un conto è un creditore che impieghi i propri denari nella conduzione di un'impresa, un conto è un qualsiasi creditore, modesto consumatore. Ecco così disegnata una categoria di creditori "consumatori" (Cass. Civ. Sez. I, 4287/99), di risparmiatori abituali, di imprenditori.
Tutto questo, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, non è stato ritenuto ancora sufficiente. Non basterebbe cioè da parte del creditore allegare la propria appartenenza ad una determinata categoria allo scopo di darsi per assodato il danno quantomeno in una certa misura. Occorrerebbe altresì la deduzione integrativa di ulteriori concreti elementi, in base ai quali determinare in concreto l'incidenza della mancata prestazione nel tempo stabilito in relazione all'impiego che di essa sarebbe stato effettuato dal creditore (Cass. Civ. Sez. III, 7024/95; Cass. Civ. Sez. II, 7667/94; Cass. Civ. Sez. I, 2182/91; Cass. Civ. Sez. I, 10860/03; Cass. Civ. Sez.II, 11594/04 , Cass. Civ. Sez. II, 11031/03).
E' necessario dunque dar conto dell'esigenza di rinvenire finanziamenti da terzi, della redditività del proprio capitale in funzione di autofinanziamento (Cass. Civ. Sez. I, 9518/99 ) o di normale rendimento (Cass. Civ. Sez. I, 2312/87), dare la prova del rendimento medio dei propri investimenti nel periodo della mora (Cass. Civ. Sez. II, 11283/92). Soltanto per il c.d. "modesto consumatore" si potrebbe riferire di un danno genericamente riconducibile alla svalutazione secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo di famiglie di operai ed impiegati (Cass. Civ. Sez. II, 6082/98 ; Cass. Civ. Sez. Lavoro, 1133/90; Cass. Civ. Sez. III, 3556/88; Cass. Civ. Sez. III, 24/88). Anche in quest'ultima ipotesi tuttavia occorrerebbe che il creditore allegasse e provasse quantomeno la propria appartenenza alla relativa categoria, dovendosi in caso contrario escludersi la rivalutazione, sia pure anche soltanto ex indici ISTAT (Cass. Civ. Sez. II, 12422/95; Cass. Civ. Sez. Unite, 2368/86). Così è stato deciso che, trattandosi di creditore rivestente la qualifica di imprenditore, il risarcimento del maggior danno quantomeno nella misura della intervenuta svalutazione sia automatico (Cass.Civ. Sez. Lavoro, 7754/03). Questo indirizzo è successivamente parso rafforzarsi, sulla scorta della presunzione che proprio la qualità imprenditoriale varrebbe ad evitare, nell'ipotesi in cui il debitore avesse regolarmente pagato, il pregiudizio relativo alla perdita di valore della moneta (Cass. Civ. Sez.II, 24925/07; Cass. Civ. Sez. I, 19390/07).
Da ultimo la S.C. è intervenuta a sezioni unite, proprio allo scopo di porre termine alle predette discrasie valutative: è stato così deciso che il maggior danno per intervenuta svalutazione sia universalmente riconoscibile (dunque indipendentemente dalla qualità professionale del creditore) quantomeno nella misura della differenza tra il tasso medio del rendimento di titoli di stato di durata non superiore a 12 mesi (se superiore al tasso di inflazione) e il tasso degli interessi legali. Sarebbe tuttavia possibile dar conto per il debitore che il creditore abbia in concreto subito un danno minore, sia per il creditore di aver sopportato un danno maggiore rispetto alla misura predetta (Cass. Civ. Sez. Unite, 19499/08). Tale indirizzo è stato oggetto di plurime conferme (tra le altre, cfr. Cass. Civ. Sez. II, 12828/09).
Il fatto di attribuire rilevanza in via presuntiva, sia pure nei limiti della riferita misura, al fenomeno della svalutazione quale danno connesso alla mora, indipendentemente dall'appartenenza del creditore ad una determinata categoria (c.d. creditore inclassificato ), sembra rispondere ad una logica equitativa innegabile. Il denaro assolve infatti una generale funzione di scambio che non può non implicare per chiunque un danno commisurato per lo meno alla perdita di valore riferita ai beni comuni della vita nota2.

Note

nota1

In questo senso Ascarelli, Delle obbligazioni pecuniarie (Artt. 1277-1284), in Comm.cod.civ., a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1959, p.570.
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nota2

Così anche Inzitari, La terza sentenza delle Sezioni unite sul maggior danno nell'inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, in Giur.it., 1986, I, 1, p.1160.
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Bibliografia

  • ASCARELLI, Obbligazioni pecuniarie (Artt. 1277-1284), Bologna-Roma, Comm. cod. civ. a cura di Scialoja-Branca, 1959
  • INZITARI, La terza sentenza delle Sezioni unite sul maggior danno nell'inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, Giur.it., I, 1986

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