Il danno da perdita della vita



E' configurabile una categoria di danno "da perdita della vita" che si palesi come autonoma rispetto a quella del danno biologico e del danno risarcibile jure proprio in capo ai parenti della vittima? Secondo Cass. Civ., Sez. III, 1361/2014 la risposta sarebbe affermativa. La pronunzia si affretta a chiarire che non si tratterebbe di una voce di danno separata, ma sarebbe ambientabile nell'ambito del danno non patrimoniale, di cui costituirebbe una componente tuttavia distinta rispetto al danno morale, al danno biologico nonchè a quello esistenziale. Ma in che cosa consiste il pregiudizio da perdita della vita? Come distinguerlo dal "danno biologico terminale", vale a dire con le sofferenze fisiche patite dal danneggiato nel tempo intercorrente tra l'evento pregiudizievole ed il decesso? Si è anche parlato di un "danno morale terminale" per alludere a tutti quei casi in cui, prescindendo dall'esistenza di un danno biologico terminale per via del limitatissimo intervallo temporale tra il fatto dannoso e la morte, si possa configurare comunque un rilievo autonomo dell'intensa sofferenza provata dal danneggiato. Anche il concetto di danno tanatologico è stato prospettato in chiave di danno morale terminale, riconducibile comunque a fattispecie nelle quali tra l'evento dannoso e la morte si può comunque ravvisare un intervallo cronologico apprezzabile. Si parla così di "danno catasfrofale" proprio per alludere al danno morale consistente nell'acutissima sofferenza di chi si stia avvedendo della prossima morte, indipendentemente dalla sofferenza fisica (Cass. Civ., Sez. III, 811/2015).

Difficile invece configurare un danno originato dalla morte in sè e per sè considerata e che purtuttavia possa dirsi ricadente nel patrimonio dell'ereditando. Come logicamente conciliare l'impossibilità di concepire il fenomeno successorio in relazione ad un diritto la cui insorgenza postulerebbe la morte del suo asserito titolare? La contraddizione parrebbe a questo riguardo innegabile. La sentenza citata pur dandosi carico di tali osservazioni ha ritenuto di superarle sulla base dell'assunto in forza del quale "al momento della lesione mortale" la medesima (la vittima, n.d.r.) è ancora in vita, ed è in tale momento che acquista il diritto al risarcimento (principio rispondente, secondo alcuni, al brocardo momentum mortis vitae tribuitur)".
Una volta conseguita l'idea che la vittima dell'azione lesiva abbia maturato quand'era ancora in vita il diritto al risarcimento è evidente che, una volta apertasi la successione, i di lei eredi avranno a subentrare, per l'appunto jure successionis. In tale ottica si pone Cass. Civ., Sez.III, 15491/2014, ma in riferimento al danno biologico subito dal danneggiato, successivamente defunto. Quando infatti sussista un apprezzabile lasso di tempo tra l'evento dannoso e la morte del danneggiato è di tutta evidenza come possa ben dirsi maturato in capo al soggetto leso un pregiudizio suscettibile di risarcimento. In esito al venir meno di tale soggetto il diritto soggettivo, maturato in capo a costui, non potrà non ricadere nell'ambito dei cespiti di cui all'asse ereditario.

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