Crisi d’impresa e cause di scioglimento della società in concordato preventivo (49/2015)


Massima

Non operando, ai sensi dell’art. 182-sexies c.c., la causa di scioglimento prevista nell’art. 2484, n. 4 c.c. (vedi Orientamento 31/2013), l’apertura della fase di liquidazione di una società che ha presentato una domanda di concordato preventivo - o di omologazione di un accordo di ristrutturazione o una proposta di accordo di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182-bis comma sesto l.f. - e che versa in una situazione di cui agli artt. 2447 o 2482-ter c.c., presuppone lo scioglimento volontario per deliberazione dei soci ai sensi dell’art. 2484 n. 6) c.c., e non può essere assunta se l’assemblea è convocata per la sola adozione dei provvedimenti di cui agli artt. 2447 o 2482-ter c.c., trattandosi in tal caso di materia non prevista nell’ordine del giorno.

La deliberazione ai sensi dell’art. 2484 n.6) c.c. non necessita di per sé di alcuna autorizzazione giudiziale, trattandosi di scelta organizzativa , salvo valutarne la compatibilità con la procedura ed i possibili riflessi su di essa, anche sotto il profilo dei costi (vedi Orientamento 33/2013).

La causa di scioglimento della società prevista nell’art. 2484 n. 4) c.c. opera nuovamente a seguito dell’omologazione del concordato preventivo (o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti), con integrale vigenza degli obblighi per gli amministratori di accertare l’eventuale sussistenza di perdite rilevanti, anche alla luce della ristrutturazione finanziaria prodotta dal concordato o dall’accordo di ristrutturazione dei debiti, e di adottare i provvedimenti conseguenti ai sensi degli artt. 2446 e 2447 o 2482-bis e 2482-ter c.c.
(vedi Orientamento 31/2013) dopo la sospensione concessa nell’art. 182-sexies l. fall. a seguito dell'ingresso nella procedura.

La questione

Ai sensi dell’art. 182-sexies l. fall., comma primo “dalla data del deposito della domanda per l'ammissione al concordato preventivo, anche a norma dell'articolo 161, sesto comma, della domanda per l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione di cui all'articolo 182-bis ovvero della proposta di accordo a norma del sesto comma dello stesso articolo e sino all'omologazione non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482-bis, commi quarto, quinto e sesto, e 2482-ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, e 2545-duodecies del codice civile.”

È stata così disposta, con la l. n. 134/2012, la sospensione degli obblighi in tema di riduzione/perdita del capitale sociale per le società in concordato o che abbiano presentato una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ovvero un’istanza per ottenere la protezione prevista dall’art. 182-bis, comma 6. La ratio di tale disposizione è chiaramente quella di rinviare il momento della ricapitalizzazione e non sottrarre risorse utili all’attività d’impresa. Il tema è oggetto dell’Orientamento n. 31, al quale si può rinviare.
Pur non operando la causa di scioglimento sopradetta, nulla peraltro vieta che i soci possano, comunque, deliberare lo scioglimento della società dopo la presentazione della domanda di concordato preventivo. La norma riconosce, infatti, la sospensione degli obblighi in tema di conservazione del capitale sociale senza però limitare il potere di provocare lo scioglimento della società attraverso un’apposita delibera assembleare a norma dell’art. 2484, n. 6) c. c.
In mancanza di qualsiasi indicazione contraria o diversa, la perdita rilevante del capitale sociale può dunque costituire il presupposto per l’esercizio della libertà assembleare di procedere allo scioglimento (volontario) della società.

Corollario di tale conclusione è che l’avviso di convocazione dovrà ovviamente prevedere tra le materie all’ordine del giorno, l’eventuale adozione della delibera di scioglimento ai sensi dell’art. 2484 n. 6). Ove dunque l’ordine del giorno dovesse fare unicamente menzione dell’adozione dei possibili provvedimenti ai sensi del n. 4 del medesimo articolo, la delibera non potrebbe essere legittimamente assunta (salva ovviamente l’ipotesi di assemblea totalitaria).

Possibile soluzione

Il principale problema interpretativo che si pone è se sia necessaria l’autorizzazione giudiziale per poter procedere allo scioglimento di una società che abbia presentato domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo.

A tale proposito, si ritiene che l’operazione non necessiti di autorizzazione giudiziale trattandosi di una libera scelta organizzativa rimessa alla compagine sociale la quale fuoriesce dal novero degli atti per i quali la legge fallimentare richiede l’autorizzazione del Tribunale o del Giudice delegato, a seconda della fase in cui si trova la procedura.

Tale conclusione, già raggiunta dalla giurisprudenza di merito prima della riforma del diritto societario nota1, appare a maggior ragione confermata oggi.

È infatti opinione largamente condivisa in dottrina, che l’elemento caratterizzante l’attuale disciplina civilistica sullo scioglimento e sulla liquidazione delle società di capitali sia rappresentato dalla valorizzazione dell’esercizio d’impresa e del momento gestionale ad esso intrinsecamente connesso.

Con il d.lgs n. 6/2003 è stata infatti accolta una visione più dinamica dello scioglimento e della conseguente liquidazione, accentuando il fatto che si tratta pur sempre di una fase dell’impresa e non solo di un procedimento volto all’estinzione di società. Si è passati dunque da un’ottica in cui la finalità della liquidazione era essenzialmente quella (di pagare i creditori sociali e) di consentire ai soci di ottenere la quota di liquidazione loro spettante, ad una concezione della liquidazione come fase di gestione dell’attività d’impresa, sia pure ovviamente nella prospettiva della dismissione dei cespiti. Ciò risulta confermato dall’art. 2490, comma 5, c.c e dall’art. 2487, comma primo, lett. c) legittimanti la continuazione dell’attività d’impresa in liquidazione, nonché dalla possibilità di revocare la deliberazione secondo il principio maggioritario a norma dell’art. 2487-ter.

Lo scioglimento deliberato dall’assemblea costituisce espressione della libertà di iniziativa economica e consente alla maggioranza assembleare di modificare l’atto costitutivo (sia che questo preveda una durata prestabilita, che con la delibera assembleare viene disattesa, sia che si tratti di società contratta a tempo indeterminato, poiché l’atto costituivo viene modificato inserendovi un elemento prima mancante).

Non si tratta dunque di atto dal contenuto gestorio, e la relativa scelta non appare suscettibile di rientrare nel novero degli atti di straordinaria amministrazione per i quali il legislatore richiede la necessaria preventiva autorizzazione del Tribunale (ai sensi dell’art. 161, comma 7, l. fall.) laddove disposto dopo il deposito di domanda “in bianco” e prima dell’ammissione, ovvero del Giudice delegato (ai sensi dell’art. 167, l. fall.), se disposto invece dopo l’ammissione alla procedura.

Tali autorizzazioni sono infatti richieste in presenza di atti di gestione straordinaria dell’impresa laddove invece, come detto, la messa in liquidazione attiene essenzialmente alle modalità organizzative attraverso la quale portare avanti la gestione del patrimonio, sia pure in una prospettiva differente, quella della dismissione dei cespiti. Il che pare espressamente sancito anche dal dettato normativo vigente, posto che l’art. 2490, comma 5, prevede espressamente la possibilità di prevedere la continuazione dell’attività di impresa.

La messa in liquidazione appare dunque scelta neutra per i creditori e, anzi, il più delle volte preordinata alla loro migliore tutela, per i probabili risparmi conseguibili. Non bisogna del resto dimenticare che la messa in liquidazione costituisce nel nostro ordinamento la via fisiologica della crisi (come mostra proprio l’art. 2484, n. 4).

Le esigenze di tutela dei creditori non sono scalfite posto che, comunque, le cautele previste in presenza di atti qualificabili come di “straordinaria amministrazione” troveranno integrale applicazione e dovranno naturalmente essere rispettate dal liquidatore che ha preso il posto del precedente organo amministrativo. Senza contare che il più delle volte la messa in liquidazione consente di ottenere dei risparmi – anche consistenti – nella gestione dell’impresa e del patrimonio.

Questo non vuol dire che non vi possano essere interferenze fra la messa in liquidazione e la procedura di concordato preventivo, ma simili possibili interferenze non consentono di configurare in capo al Tribunale (o al Giudice delegato) il potere di autorizzare o meno la messa in liquidazione, bensì determinano conseguenze di tipo diverso.

Poiché infatti la procedura di concordato implica un piano ed una proposta, già depositati o per il cui deposito corre il termine concesso dal tribunale a seguito della presentazione di una domanda in bianco, si rende necessario valutare la compatibilità della delibera assembleare di scioglimento con la procedura e, in particolare, la coerenza dello stato di liquidazione con le scelte alla base del piano e della proposta, fermo rimanendo che, a differenza di quanto prescrive l’art. 2499 con riferimento alla trasformazione, il codice civile non prevede espresse limitazioni allo scioglimento.

La valutazione della compatibilità, dunque, non si pone sul piano autorizzatorio, sì da configurare il potere del Giudice di consentire o meno la messa in liquidazione, bensì sul diverso piano della verifica circa i requisiti di fattibilità del concordato, la cui valutazione non può evidentemente sfuggire agli organi della procedura (ed ai creditori).

Ed allora si possono configurare alcuni scenari:
a) se la messa in liquidazione precede il deposito del piano, quest’ultimo non potrà che prendere atto e fare riferimento ad una società in stato di liquidazione;
b) se la messa in liquidazione segue il deposito del piano, occorrerà una valutazione circa la neutralità del sopravvenuto stato di liquidazione rispetto al piano.
In tutti i casi, però, la valutazione non può condurre a bloccare la liquidazione, quanto invece a determinare l’inammissibilità del concordato, ovvero la revoca ai sensi dell’art. 173, l. fall., ogni qualvolta lo stato di liquidazione possa risultare incompatibile con le soluzioni poste alla base del concordato nota2. Ad analoga conclusione sembra potersi giungere nel caso in cui la trasformazione segua al deposito di una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione ai sensi dell’art. 186-bis, l. fall.; in tale caso, infatti, non si pone un problema di autorizzazione, bensì solo di compatibilità con l’accordo medesimo. In altre parole, ove la trasformazione sia incompatibile con l’accordo, potrebbe conseguire il diniego di omologazione da parte del Tribunale.

Infine, la valutazione non può non implicare anche un’attenzione verso il costo che la messa in liquidazione genera. Se il costo dell’operazione societaria straordinaria in pendenza di una procedura è sostenuto da terzi diversi dalla società stessa, nulla quaestio. Il problema non si pone ove un qualsiasi soggetto giuridico diverso dalla società sottoposta alla procedura, fosse disponibile alla sopportazione di tali costi.

Se, al contrario, tali costi dovessero di fatto gravare sul patrimonio sociale può dirsi che, con specifico riferimento al concordato preventivo, prima dell’omologazione sarà tendenzialmente necessaria un’autorizzazione giudiziale al fine dell’addebito delle spese vive dell’operazione al patrimonio sociale. Più precisamente, non vi sono ragioni per discostarsi dall’Orientamento n. 33 avente ad oggetto le spese connesse alle operazioni straordinarie in pendenza di concordato preventivo. Pertanto, l’autorizzazione sarà:
i) non necessaria ove i costi complessivi dell’operazione straordinaria siano inferiori al limite di valore eventualmente fissato dal Tribunale, ai sensi dell’art. 167, comma 3, l.f., al disotto del quale non è appunto richiesta l’autorizzazione del Giudice Delegato
ii) di competenza del tribunale, ai sensi dell’art. 161, comma 7, l.fall., nella fase antecedente al decreto di ammissione alla procedura;
iii) di competenza del giudice delegato, ai sensi dell’art. 167 l.f., nella fase compresa tra l’ammissione alla procedura e l’omologazione.

La valutazione dovrà essere effettuata sulla base del confronto fra il costo connesso alla messa in liquidazione ed il beneficio per la società (principalmente sotto il profilo del risparmio conseguibile mediante la messa in liquidazione).

Note

nota1


Così App. Milano 10 novembre 1987 (decr.) , in Dir. fall., 1988, II, 38 ss.
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nota2


Così, ad esempio, laddove il piano si fondasse sulla prosecuzione di un contratto di joint venture che presuppone la continuità aziendale (prevedendo come spesso capita la possibile esclusione del contraente che si trovi in stato di liquidazione), l’eventuale scioglimento della società potrebbe comportare una valutazione di inammissibilità del proposto concordato.
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