Circolare N. 38/E, Organizzazioni non lucrative di utilità sociale


Roma, 1 agosto 2011

OGGETTO: Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS). Decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460. Indirizzi interpretativi su alcune tematiche rilevanti.

1. ESENZIONE DALL’IMPOSTA DI REGISTRO PER GLI ATTI COSTITUTIVI DELLE ORGANIZZAZIONI DI VOLONTARIATO.

La legge 11 agosto 1991, n. 266 (legge quadro sul volontariato) subordina le agevolazioni fiscali da essa previste in favore delle organizzazioni di volontariato all’iscrizione delle organizzazioni in argomento nei registri generali delle organizzazioni di volontariato istituiti e tenuti dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano, ai sensi dell’art. 6 della stessa legge.
Tra i benefici fiscali previsti dalla legge n. 266 del 1991 sono ricomprese le agevolazioni concernenti le imposte indirette, recate dai commi 1 e 2 dell’art. 8 della stessa legge.
In particolare, il comma 1 dell’art. 8 della legge n. 266 del 1991 prevede una agevolazione in tema di imposta di registro, stabilendo che gli atti costitutivi delle organizzazioni di volontariato disciplinate dalla medesima legge, “costituite esclusivamente per fini di solidarietà, e quelli connessi allo svolgimento delle loro attività sono esenti dall’imposta bollo e dall’imposta di registro”.
Con circolare n. 3 del 25 febbraio 1992 è stato chiarito che l’applicazione dell’esenzione dall’imposta di registro è subordinata alla circostanza che le organizzazioni di volontariato siano costituite esclusivamente per fini di solidarietà e siano iscritte nei registri del volontariato tenuti dalle regioni e dalle province autonome.
La circolare n. 3 del 1992 ha concluso nel senso che, in presenza di tali condizioni, la registrazione degli atti costitutivi delle associazioni di volontariato “dovrà essere eseguita senza pagamento di imposta”.
Ciò posto, si rileva, che alcune leggi regionali prevedono che le organizzazioni di volontariato, nel richiedere l’iscrizione nei registri del volontariato, debbano allegare copia dell’atto costitutivo redatto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata.
Ciò comporta che le stesse organizzazioni solo dopo la registrazione dell’atto costitutivo potranno iscriversi negli appositi registri .
Pertanto, in tali ipotesi, le organizzazioni di volontariato possono fruire dell’esonero dall’imposta di registro prima dell’iscrizione negli appositi registri ma dovranno comunicare tempestivamente, all’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate che ha provveduto alla registrazione dell’atto costitutivo, l’avvenuta iscrizione nel registro delle organizzazioni di volontariato.
Gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate, nel caso in cui non risulti l’avvenuta iscrizione nel predetto registro nei tempi utili per l’accertamento, procederanno al recupero delle imposte non pagate con applicazione dei relativi interessi e sanzioni.

2. PARTECIPAZIONE DI ENTI “ESCLUSI” NELLE ONLUS.

Sul tema della partecipazione ad una ONLUS da parte di società commerciali ed enti pubblici e, più in generale, di soggetti “esclusi” dalla qualifica di ONLUS ai sensi dell’art. 10, comma 10, del D. Lgs. n. 460 del 1997, con la circolare n. 59/E del 31 ottobre 2007, par. 3, nel confermare il precedente orientamento già espresso nella risoluzione n. 164/E del 28 dicembre 2004, è stato precisato che la qualifica di ONLUS non deve essere negata ad organizzazioni partecipate da enti pubblici e/o società commerciali qualora questi non esercitino un’influenza dominante nelle determinazioni della ONLUS.
Ciò posto, si formulano le seguenti osservazioni.

L’ultimo decennio ha visto il proliferare di enti di natura privata del terzo settore costituiti (o partecipati) da enti pubblici e da società commerciali (es. fondazioni di comunità, fondazioni d’impresa).
Tale fenomeno è da attribuirsi alla necessità, non solo di ridurre l’utilizzo di risorse pubbliche in specifici ambiti, ma anche di sperimentare nuove soluzioni di partenariato attivo fra le organizzazioni del terzo settore da un lato e gli enti pubblici e le società commerciali dall’altro, in specie alla luce del principio di sussidiarietà previsto dall’art. 118, ultimo comma, della Costituzione.
In particolare, la costituzione di (o la partecipazione ad) enti di natura privata operanti nel terzo settore da parte degli enti pubblici è stata stimolata anche dall’evoluzione del diritto dei servizi sociali che, in questi ultimi anni, ha subito una notevole metamorfosi anche per influsso delle sollecitazioni provenienti dall’Unione europea.
Sul punto, la risoluzione del Parlamento Europeo del 19 febbraio 2009 n. 2008/2250(INI) sull’economia sociale, nell’invitare i legislatori nazionali a provvedere al riconoscimento dell’economia sociale e dei soggetti che ne fanno parte, ha inteso, fra l’altro, promuovere la creazione di reti di solidarietà attraverso un partenariato attivo tra le autorità locali e le organizzazioni del terzo settore.
Le sinergie create da tali forme di partenariato nel campo dei servizi prodotti dal mondo del terzo settore a favore della collettività sociale, ampliando l’ambito della partecipazione, della consultazione e della corresponsabilità, possono consentire di migliorare l’offerta dei servizi sociali, anche a fronte della crisi economica globale.
D’altro canto, anche gli enti commerciali hanno sentito l’esigenza di costituire enti del terzo settore (o di partecipare agli stessi) dietro la spinta del concetto di “responsabilità sociale d’impresa”, che si è andato sempre più affermando nell’ultimo periodo in ambito comunitario. Si osserva, al riguardo, che la Commissione europea nel 2001 ha emanato il “libro verde” avente ad oggetto la promozione di “un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”.
In virtù di questo modello concettuale le imprese operano in un’ottica che tende non solo a creare valore per le imprese stesse, ma cerca di gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico a vantaggio della collettività, anche con la costituzione di (e/o la partecipazione a) organizzazioni private operanti nel terzo settore, del tutto autonome dalle imprese promotrici.
Le valutazioni fin qui svolte, unitamente alla constatazione che il D. Lgs. n. 460 del 1997 reca – come di seguito specificato – vincoli stringenti sufficienti di per sé ad evitare possibili manovre elusive, inducono ad adottare, alla luce delle diverse formule organizzative e delle mutate esigenze gestionali che hanno interessato negli ultimi tempi il terzo settore, un diverso orientamento interpretativo in base al quale gli enti pubblici e le società commerciali possono costituire (o partecipare ad) ONLUS, ancorché nella compagine sociale i soggetti di cui all’art. 10, comma 10, del D.lgs. 460/97 (cd. enti esclusi) siano numericamente prevalenti o assumano un ruolo determinante nella definizione degli atti di indirizzo e di gestione dell’ente ONLUS.
Alle stesse conclusioni si perviene anche nel caso delle fondazioni ONLUS, qualora l’organo esecutivo sia formato in maggioranza da soggetti scelti dagli enti pubblici o dalle società commerciali che hanno costituito le medesime fondazioni.
In ogni caso, quindi, si ritiene che gli “enti esclusi” dalla qualifica di ONLUS possano costituire (o partecipare ad) un soggetto giuridico autonomo avente la qualifica fiscale di ONLUS, a prescindere dalla circostanza che i medesimi “enti esclusi” intervengano o meno nell’assunzione delle determinazioni della ONLUS stessa.
Al riguardo, occorre tenere conto che le previsioni normative recate dall’art. 10 del D. Lgs. n. 460 del 1997 – che prevedono il divieto di svolgere attività diverse da quelle tassativamente previste e l’obbligo di utilizzare le proprie risorse economiche e patrimoniali esclusivamente per la realizzazione delle attività istituzionali e per il perseguimento di finalità di solidarietà sociale – rappresentano nel loro complesso un sistema strutturato di disposizioni il quale, nel consentire lo sviluppo delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, mira ad impedire che il regime fiscale di favore delle ONLUS stesse possa essere artatamente ed elusivamente utilizzato per finalità diverse da quelle per le quali è stato previsto dal legislatore.
La circostanza, infatti, che il regime fiscale di una ONLUS venga elusivamente utilizzato dai partecipanti (ovvero da coloro che a qualsiasi titolo operino per la ONLUS o ne facciano parte) per il perseguimento di indebiti vantaggi fiscali rappresenta una fattispecie certamente vietata dalle disposizioni del citato D. Lgs. n. 460 del 1997.
In altri termini, l’utilizzo della qualifica di ONLUS e la conseguente applicazione delle relative agevolazioni fiscali sono condizionati dal possesso dei requisiti obbligatori formali nonché dal rispetto sostanziale degli stessi, riscontrabili nell’ambito della generale attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria.
In tale sede, quindi, si potrà in concreto accertare la mancanza o il venire meno dei requisiti di cui all’art. 10 del citato D. Lgs. n. 460 del 1997 ovvero che la costituzione della ONLUS configura l’ipotesi di interposizione fittizia di cui all’art. 37, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e provvedere, conseguentemente, alla cancellazione dell’organizzazione dall’Anagrafe delle ONLUS dalla quale discende la perdita dei benefici fiscali riservati a queste ultime organizzazioni.
Specifiche considerazioni devono, tuttavia, essere svolte relativamente alle Organizzazioni Non Governative (ONG) riconosciute idonee ai sensi della legge 26 febbraio 1987, n. 49, le quali sono considerate ONLUS di diritto, ai sensi dell’art. 10, comma 8, del D. Lgs. n. 460 del 1997, “nel rispetto della loro struttura e delle loro finalità”.
Con tale espressione si ritiene che il legislatore abbia inteso ribadire che le ONLUS di diritto devono comunque rispettare le finalità indicate nella specifica disciplina di settore; in particolare le ONG devono rispettare la legge n. 49 del 1987.
Detta legge, all’art. 28, comma 4, dispone, tra l’altro, che il riconoscimento di idoneità può essere dato a condizione che le medesime “non abbiano rapporti di dipendenza da enti con finalità di lucro, né siano collegate in alcun modo agli interessi di enti pubblici o privati, italiani o stranieri aventi scopo di lucro”.
Ne consegue che è preclusa agli enti pubblici e alle società commerciali la possibilità di partecipare in qualunque modo alle Organizzazioni Non Governative di cui alla legge n. 49 del 1997.

3. ISCRIVIBILITÀ DEL TRUST NELL’ANAGRAFE DELLE ONLUS

3.1. Tipologie di enti che possono assumere la qualifica di ONLUS.

Il D. Lgs. n. 460 del 1997 non richiede, per l’acquisizione della qualifica di ONLUS, l’appartenenza a particolari forme giuridiche.
In particolare, ai sensi dell’art. 10, comma 1, del citato D. Lgs. n. 460 del 1997, possono assumere la qualifica di ONLUS, oltre alle associazioni, ai comitati, alle fondazioni e alle società cooperative, “gli altri enti di carattere privato” con o senza personalità giuridica.

Atteso che l’iscrizione nell’Anagrafe delle ONLUS comporta l’acquisizione di un’autonoma e distinta qualifica avente rilevanza fiscale che si traduce nella fruibilità di un regime tributario di favore, il riferimento agli “altri enti” di carattere privato recato dall’art. 10 del D. Lgs. n. 460 del 1997 deve essere inteso come riferimento a tutte le organizzazioni aventi autonoma soggettività sotto il profilo tributario, a prescindere dalla forma giuridica assunta e dalla qualificazione delle stesse agli effetti civilistici.
Pertanto, ai fini dell’acquisizione della qualifica di ONLUS, possono essere ricondotte tra “gli altri enti di carattere privato” tutte le organizzazioni che:
  • abbiano soggettività passiva ai fini tributari;
  • si conformino alle condizioni richieste dal citato art. 10 del D. Lgs. n. 460 del 1997.

3.2. Soggettività passiva del trust.

Dalle considerazioni svolte nel paragrafo 3.1. consegue che la problematica relativa alla possibile acquisizione, da parte di un trust, della qualifica di ONLUS presuppone, in primo luogo, che il trust costituisca un autonomo soggetto passivo d’imposta.
Al riguardo si fa presente che i trust sono inclusi tra i soggetti passivi IRES individuati dall’art. 73, comma 1, lettere b), c) e d) del TUIR, come modificato dall’art. 1, comma 74, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.
Con circolare n. 48/E del 6 agosto 2007 (con la quale sono stati forniti i primi chiarimenti sulla disciplina fiscale applicabile ai trust ai fini delle imposte sui redditi e delle imposte indirette) e con successiva circolare n. 61/E del 27 dicembre 2010 (che ha fornito ulteriori chiarimenti in merito alla disciplina fiscale dei trust) è stato precisato che il riconoscimento del trust nell’ambito dell’ordinamento nazionale si verifica esclusivamente nei confronti di quei trust che rispettano le condizioni e hanno gli elementi previsti dalla Convenzione di L’Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva in Italia con legge 16 ottobre 1989, n. 364.
In particolare, nelle citate circolari è stato precisato, fra l’altro, che in forza dell’art. 2 della citata Convenzione possono essere riconosciuti nell’ordinamento italiano solo i trust aventi i seguenti elementi essenziali:
  • i beni vincolati nel trust devono costituire una massa distinta e separata rispetto al patrimonio del disponente, del trustee e del beneficiario;
  • i beni vincolati nel trust sono intestati al trustee o ad altro soggetto per conto del trustee;
  • il trustee è tenuto ad amministrare, gestire e disporre dei beni in trust secondo le indicazioni dettate nell’atto istitutivo del trust e nel rispetto della legge;
  • il trustee deve rendere conto della gestione.

Ricorrendo le predette condizioni, infatti, si verifica l’effetto principale dell’istituzione di un trust che consiste nella segregazione patrimoniale in virtù della quale il disponente trasferisce taluni beni o diritti a favore del trustee, nell’interesse di un beneficiario o per uno scopo prestabilito, ed i beni o diritti conferiti in trust costituiscono un patrimonio separato rispetto a quello del trustee.
Pertanto, solo in presenza degli elementi sopra individuati può ravvisarsi un autonomo soggetto passivo ai fini IRES ai sensi dell’art. 73 del TUIR.
Peraltro, valgono al riguardo le considerazioni espresse nella circolare n. 61/E del 2010 in merito alle ipotesi in cui il trust costituisca una struttura fittiziamente interposta: è evidente che in tali casi, non essendo in presenza di un autonomo soggetto d’imposta, il trust non può acquisire la qualifica di ONLUS.

3.3. Condizioni generali per il riconoscimento della qualifica di ONLUS in capo ad un trust.

L’autonoma soggettività passiva dei trust ai sensi dell’art. 73 del TUIR, che può dirsi sussistente laddove ricorrano i presupposti richiamati al paragrafo precedente, comporta l’astratta riconducibilità dei trust tra gli “altri enti di carattere privato” di cui al citato art. 10, comma 1, del D. Lgs. n. 460 del 1997.
Tuttavia, la presenza dei suddetti presupposti costituisce condizione necessaria ma non sufficiente ai fini del riconoscimento della qualifica di ONLUS in quanto l’iscrivibilità nell’Anagrafe delle ONLUS è, altresì, subordinata alla verifica della compatibilità, in via generale, delle differenti tipologie di trust con il regime tributario di favore previsto per le ONLUS nonché al rispetto, da parte del trust, delle clausole stabilite dal D. Lgs. n. 460 del 1997.
In proposito, si fa presente che l’art. 73 del TUIR, nell’individuare le modalità di tassazione dei redditi prodotti dal trust, distingue due principali tipologie di trust:
  • i trust con beneficiari individuati, nei quali “i redditi conseguiti dal trust sono imputati in ogni caso ai beneficiari in proporzione alla quota di partecipazione individuata nell’atto di costituzione del trust o in altri documenti successivi ovvero, in mancanza, in parti uguali” (cc.dd. trust trasparenti) e tassati in capo agli stessi come redditi di capitale ai sensi della lett. g-sexies) del comma 1 dell’art. 44 del TUIR;
  • i trust senza beneficiari individuati, i cui redditi vengono direttamente attribuiti al trust medesimo (cc.dd. trust opachi).
Con riguardo alla prima categoria di trust sopra richiamata, la citata circolare n. 48/E del 2007 ha chiarito che – premesso che il presupposto di applicazione dell’imposta è il possesso di redditi – per “beneficiario individuato” deve intendersi il beneficiario “di reddito individuato”, ovvero il soggetto che sia puntualmente individuato e che “risulti titolare del diritto di pretendere dal trustee l’assegnazione di quella parte di reddito che gli viene imputata per trasparenza”.
Riguardo alla nozione di trust “con beneficiario di reddito individuato”, con risoluzione n. 425/E del 5 novembre 2008 è stato precisato che la tassazione per trasparenza di un trust presuppone che“il reddito sia immediatamente e originariamente riferibile ai beneficiari”.
In sostanza, secondo il citato documento di prassi, “il diritto all’assegnazione del reddito deve nascere ab origine a favore di determinati beneficiari”.
Al fine di ulteriormente puntualizzare i principi espressi con la citata risoluzione n. 425/E del 2008, si precisa che, per soddisfare la condizione sopra evidenziata, vale a dire la titolarità ab origine in capo ad un beneficiario puntualmente individuato (o a beneficiari puntualmente individuati) del diritto all’assegnazione del reddito dei beni in trust, è necessario:
a) che il beneficiario sia puntualmente individuato;
b) che al beneficiario venga riconosciuta la titolarità di una situazione giuridica soggettiva comportante il diritto a pretendere l’assegnazione del reddito prodotto dai beni facenti parte del trust;
c) che il diritto a pretendere l’assegnazione del reddito prodotto dai beni in trust sia conferito al beneficiario anteriormente alla produzione del reddito stesso in quanto solo in tal caso è possibile ravvisare, sin dall’origine, la riferibilità al beneficiario medesimo del reddito e, quindi, il possesso di detto reddito in capo al beneficiario;
d) che l’esistenza di beneficiari individuati risulti da una espressa, inequivoca e adeguatamente documentata manifestazione di volontà, intervenuta anteriormente alla produzione del reddito realizzato dal trust e diretta ad individuare uno o più beneficiari ed a riconoscere ai medesimi il diritto a pretendere l’attribuzione del predetto reddito.
Relativamente all’individuazione del beneficiario e all’attribuzione allo stesso del diritto a pretendere l’assegnazione del reddito dei beni in trust si precisa che tali previsioni possono costituire oggetto sia di una manifestazione di volontà del disponente nell’ambito dell’atto di costituzione del trust o in documenti successivi, sia di una decisione del trustee qualora l’atto costitutivo riservi a quest’ultimo la possibilità di individuare uno o più beneficiari e di attribuire ad essi il diritto a pretendere l’assegnazione del reddito dei beni facenti parte del trust.
Dalla disamina sopra effettuata emerge che, agli effetti dell’imposizione sui redditi, possono individuarsi le seguenti tipologie di trust:
  • trust trasparente, nel quale i beneficiari, essendo espressamente individuati ed avendo il diritto di pretendere l’assegnazione dei redditi prodotti dal trust, esprimono, rispetto a tali redditi, autonoma capacità contributiva;
  • trust opaco, nel quale non essendovi beneficiari di reddito individuati nel senso sopra precisato, i redditi prodotti dal trust sono imputati direttamente in capo al trust stesso.

3.3.1. Trust trasparente e qualifica di ONLUS.

La compatibilità o meno con la qualifica di ONLUS del trust c.d. “trasparente” deve essere verificata raffrontando le modalità di tassazione del trust trasparente con il regime fiscale applicabile alle ONLUS ai fini IRES.
Per quanto concerne le modalità di tassazione dei trust trasparenti, si fa presente che in detta tipologia di trust il reddito è imputato per trasparenza ai singoli beneficiari di reddito individuati in quanto gli stessi, essendo titolari del diritto di pretendere l’assegnazione del reddito prodotto, sono qualificabili come possessori del predetto reddito (cfr. circolare n. 48/E del 2007 e risoluzione n. 425/E del 2008). Conseguentemente, il reddito prodotto dal trust trasparente viene tassato non in capo al trust ma ai beneficiari, come sopra individuati, quale reddito di capitale, secondo le aliquote IRPEF personali di ciascuno.
Il regime di favore previsto, ai fini delle imposte sui redditi, per le ONLUS è recato dall’art. 150 del TUIR, secondo cui per le ONLUS:
  • non costituisce esercizio di attività commerciale lo svolgimento delle attività istituzionali nel perseguimento di esclusive finalità di solidarietà sociale;
  • non concorrono alla formazione del reddito imponibile i proventi derivanti dall’esercizio delle attività direttamente connesse a quelle istituzionali.
Di conseguenza, i proventi derivanti dall’esercizio, da parte delle ONLUS, delle attività istituzionali e delle attività connesse non sono assoggettati a tassazione in capo all’organizzazione ai fini delle imposte sui redditi.
L’anzidetto regime fiscale presuppone, quindi, che l’ente riconosciuto come ONLUS sia possessore dei redditi per i quali si rende applicabile il regime di favore recato dal citato art. 150 del TUIR e che, conseguentemente, non solo la determinazione del reddito, ma anche la tassazione dello stesso, avvengano in capo al medesimo ente che ha ottenuto la qualifica di ONLUS.
In sostanza, il regime di favore previsto per le ONLUS presuppone la coincidenza fra l’ente che effettua una determinata attività di solidarietà sociale, alle condizioni e nei limiti previsti dal D. Lgs. n. 460 del 1997, e l’ente che, essendo possessore del reddito derivante da quell’attività, beneficia della detassazione prevista dall’ordinamento.
Da quanto sopra consegue la sussistenza di un’incompatibilità tra il sistema di tassazione proprio dei trust “trasparenti” – nel quale gli effettivi possessori del reddito prodotto sono i beneficiari, in capo ai quali avviene la tassazione dei predetti redditi ad essi imputati per trasparenza – e le modalità di tassazione delle ONLUS, che presuppongono l’imputazione direttamente ed esclusivamente in capo all’organizzazione dei redditi determinati secondo il regime di favore proprio delle ONLUS.
Infatti, l’eventuale riconoscimento della qualifica di ONLUS in capo ad un trust trasparente comporterebbe che a beneficiare del regime fiscale previsto per le ONLUS *consistente nella detassazione dei proventi derivanti dalle attività istituzionali e connesse *sarebbe un soggetto diverso rispetto all’organizzazione che svolge l’attività di utilità sociale agevolata ai fini IRES. In sostanza, il beneficio della detassazione dei proventi prodotti dal trust si tradurrebbe, in sede di determinazione della quota di spettanza di ciascun beneficiario da imputare per trasparenza, in un’agevolazione a favore di quest’ultimo.
Al verificarsi delle suesposte condizioni, quindi, deve ritenersi precluso il riconoscimento della qualifica di ONLUS al c.d. trust “trasparente”.
Peraltro, l’art. 10, comma 1, lett. e), del D. Lgs. n. 460 del 1997 impone alle ONLUS di impiegare tutti gli utili e gli avanzi di gestione esclusivamente per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle ad esse direttamente connesse.
Pertanto, in via generale, l’erogazione, in denaro o in natura, da parte di una ONLUS, dei redditi da essa prodotti è ammessa limitatamente alle ipotesi in cui fra le attività istituzionali svolte dall’ente figuri l’attività di beneficenza individuata dall’art. 10, comma 1, lettera a), n. 3 del D. Lgs. n. 460 del 1997.
Tale attività, che deve essere svolta a favore di soggetti indigenti o a favore di enti senza scopo di lucro che operano prevalentemente nei settori tipici delle ONLUS (cfr. circolare n. 168 del 26 giugno 1998 e circolare n. 12/E del 9 aprile
2009, par. 2.2), consiste nell’effettuazione di prestazioni erogative, a carattere liberale, in denaro o in natura, nei confronti dei predetti soggetti ed enti.
Il carattere liberale delle prestazioni erogative implica la completa discrezionalità in capo all’erogante nella scelta del beneficiario.
Tale circostanza non appare soddisfatta nel trust trasparente in quanto, da un lato, il beneficiario è titolare di un diritto a pretendere l’assegnazione della parte di redditi prodotti dal trust (che vengono ad esso imputati per trasparenza) e dall’altro il trustee è obbligato ad assegnare tali redditi al beneficiario individuato (dal disponente ovvero dal trustee medesimo)
Anche per questo motivo, quindi, l’assegnazione dei redditi prodotti dal trust si configurerebbe come attività non consentita ad una ONLUS ai sensi del D. Lgs. n. 460 del 1997, non potendo la stessa assegnazione qualificarsi come erogazione liberale in favore del beneficiario e non costituendo, in capo al trust, attività di beneficenza ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera a), n. 3 e comma 2-bis del D. Lgs. n. 460 del 1997.

3.3.2. Trust opaco e qualifica di ONLUS.

Come evidenziato nel precedente paragrafo 3.3., con riguardo ai trust “opachi” il reddito prodotto dal trust è imputato direttamente e interamente al trust stesso ed assoggettato a tassazione in capo a quest’ultimo. Tale modalità di tassazione, in base alla quale l’effettivo possessore del reddito è il trust stesso, appare compatibile con il regime fiscale di favore previsto per le ONLUS che, come evidenziato nel precedente paragrafo, presuppone l’imputabilità dei redditi dell’organizzazione che ottiene il riconoscimento direttamente ed esclusivamente in capo alla stessa.
Da ciò consegue che, sotto tale profilo, non sussistono preclusioni al riconoscimento della qualifica di ONLUS in capo ai trust opachi.
Si precisa, tuttavia, che possono legittimamente ottenere il riconoscimento della qualifica di ONLUS e mantenere detta qualifica solo i trust che, sia al momento del riconoscimento, che durante tutta la vita del trust stesso, siano totalmente privi di beneficiari di reddito individuati nel senso indicato nel precedente paragrafo 3.3.
In sostanza, qualora nell’ambito di un trust opaco, che abbia ottenuto il riconoscimento della qualifica di ONLUS, vengano eventualmente individuati uno o più beneficiari aventi il diritto di pretendere l’erogazione, in tutto o in parte, dei redditi che il trust dovrà produrre, il trust perderà definitivamente la qualifica di ONLUS.
Tale qualifica non potrà più essere attribuita al medesimo trust, anche nel caso in cui, in seguito, quest’ultimo riacquisisca la configurazione di trust opaco.
Ciò posto, si fa presente che i trust opachi possono ottenere la qualifica di ONLUS a condizione che gli stessi siano in possesso di tutti i requisiti previsti dall’art. 10 del D. Lgs. n. 460 del 1997.
E’ quindi necessario, ai fini del riconoscimento della qualifica di ONLUS in capo al trust opaco, che l’atto costitutivo o lo statuto dello stesso, redatto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata, contenga tutte le clausole previste dall’art. 10, comma 1, del citato D. Lgs. n. 460 del 1997 e che le medesime clausole siano, in concreto, rispettate.
Si precisa che, qualora l’attività del trust opaco consista nell’effettuazione di erogazioni in denaro o in natura, realizzate a titolo gratuito e con spirito di liberalità, è necessario che il trust, per ottenere il riconoscimento della qualifica di ONLUS, preveda nell’atto istitutivo, tra i settori di attività, quello della beneficenza di cui al n. 3 dell’art. 10, primo comma, lett. a) del citato D. Lgs. n. 460. Per quanto concerne le modalità, le condizioni e i limiti allo svolgimento di attività di beneficenza da parte delle ONLUS si rinvia ai chiarimenti forniti, fra l’altro, con le sopra citate circolari n. 168 del 1998 e n. 12/E del 2009, par. 2.2.
Si precisa, altresì, in merito alla clausola di cui alla lett. h) dell’art. 10, comma 1, del D. Lgs. n. 460 del 1997 – secondo la quale è imposto alle ONLUS di prevedere statutariamente la “disciplina uniforme del rapporto associativo e delle modalità associative volte a garantire l’effettività del rapporto medesimo” – che la stessa non trova applicazione, per espressa previsione del comma 7 del citato art. 10, nei confronti, fra l’altro, delle fondazioni, attesa la diversità degli elementi costitutivi che caratterizzano tali ultimi enti rispetto alle associazioni.
La previsione di cui alla citata lett. h), volta, in sostanza, a garantire l’effettività del rapporto associativo, è del pari inapplicabile ai trust in considerazione della peculiare configurazione giuridica degli stessi, che non si sostanzia in un rapporto a struttura associativa.
Si evidenzia, infine, che l’acquisizione della qualifica di ONLUS ed il mantenimento della stessa da parte dei trust opachi sono altresì subordinati alla compatibilità delle disposizioni contenute nella legge straniera – individuata dall’atto istitutivo come legge applicabile al trust – con i requisiti e le condizioni previsti dall’art. 10 del D. Lgs. n. 460 del 1997.

4. PARTECIPAZIONE DI UNA ONLUS IN UN’IMPRESA SOCIALE.

La questione relativa alla possibilità per una ONLUS di detenere una partecipazione di un’impresa sociale comporta la verifica della compatibilità della disciplina normativa della stessa impresa sociale recata dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155, con i limiti e le condizioni richiesti per l’acquisizione e il mantenimento della qualifica di ONLUS dal D. Lgs. n. 460 del 1997.
Al riguardo, si evidenzia, in via preliminare, che le ONLUS sono, ai sensi del dell’art. 10 del D.Lgs. n. 460 del 1997, organismi di carattere privato che operano, senza fini di lucro, in determinati settori di interesse collettivo per il perseguimento di esclusive finalità di solidarietà sociale.
In particolare, relativamente all’assenza del fine di lucro, si ricorda che è espressamente previsto per le ONLUS:
  • il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione durante la vita dell’organizzazione (cfr. art. 10, comma 1, lettera d) del D.Lgs. n. 460 del 1997);
  • l’obbligo di impiegare gli utili o gli avanzi di gestione per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle ad esse direttamente connesse (cfr. art. 10, comma 1, lettera e) del D.Lgs. n. 460 del 1997);
  • l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’organizzazione in caso di suo scioglimento ad altre ONLUS o per fini di pubblica utilità (cfr. art. 10, comma 1, lettera f) del D.Lgs. n. 460 del 1997).

Si ricorda, inoltre, che le ONLUS sono tenute ad operare, nell’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale, in uno o più dei seguenti settori: assistenza sociale e socio-sanitaria; assistenza sanitaria; beneficenza; istruzione; formazione; sport dilettantistico; tutela, promozione e valorizzazione delle cose di interesse artistico e storico; promozione della cultura e dell’arte; tutela dei diritti civili; ricerca scientifica di particolare interesse sociale (cfr. art. 10, comma 1, lettera a) e comma 2 del D.Lgs. n. 460 del 1997).
Ciò posto, per quanto concerne l’impresa sociale, si fa presente quanto segue. L’art. 1, comma 1, del D. Lgs. n. 155 del 2006 stabilisce che possono acquisire “la qualifica” di impresa sociale “tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale”.
Dal punto di vista soggettivo è richiesta, unitamente alla natura giuridica privata dell’ente, l’“assenza dello scopo di lucro”.
Al riguardo, l’art. 3 del D.Lgs. n. 155 del 2006, stabilisce, al comma 1, che l’organizzazione che esercita un’impresa sociale deve destinare gli utili e gli avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio.
Il successivo comma 2 dello stesso art. 3 del D.Lgs. n. 155 del 2006, prevede, a tale fine, il divieto di distribuzione, anche in forma indiretta, di utili e avanzi di gestione, comunque denominati, nonché di fondi e riserve in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori.
Al fine di preservare l’assenza dello scopo di lucro il D.Lgs. n. 155 del 2006 prevede, altresì, all’art. 13, comma 3, che in caso di cessazione dell’impresa, il patrimonio residuo è devoluto a ONLUS, associazioni, fondazioni ed enti ecclesiastici, secondo le norme statutarie.
Dal punto di vista oggettivo l’impresa sociale è tenuta ad operare nei seguenti settori di attività, individuati dall’art. 2 del citato D.Lgs. n. 155 del 2006:
a) assistenza sociale, ai sensi della legge 8 novembre 2000, n. 328, recante legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali;
b) assistenza sanitaria, per l’erogazione delle prestazioni di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri emanato in data 29 novembre 2001, recante “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”, e successive modificazioni;
c) assistenza socio-sanitaria, ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri emanato in data 14 febbraio 2001, recante “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie”;
d) educazione, istruzione e formazione, ai sensi della legge 28 marzo 2003, n. 53, recante delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale;
e) tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ai sensi della legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione, con esclusione delle attività, esercitate abitualmente, di raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi;
f) valorizzazione del patrimonio culturale, ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42;
g) turismo sociale, di cui all’art. 7, comma 10, della legge 29 marzo 2001, n. 135, recante riforma della legislazione nazionale del turismo;
h) formazione universitaria e post-universitaria;
i) ricerca ed erogazione di servizi culturali;
l) formazione extra-scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica ed al successo scolastico e formativo;
m) servizi strumentali alle imprese sociali, resi da enti composti in misura superiore al settanta per cento da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale.

Inoltre, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 2 del D.Lgs. n. 155 del 2006, indipendentemente dall’esercizio dell’attività di impresa nei settori sopra elencati, possono acquisire la qualifica di impresa sociale le organizzazioni che esercitano attività d’impresa al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti che siano:
  • lavoratori svantaggiati ai sensi dell’art. 2, primo paragrafo, lettera f), punti i), ix) e x), del regolamento (CE) n. 2204/2002, 5 dicembre 2002, della Commissione relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione;
  • lavoratori disabili ai sensi dell’art. 2, primo paragrafo, lettera g), del citato regolamento (CE) n. 2204/2002.
In merito alla struttura proprietaria dell’impresa sociale, l’art. 4 del D.Lgs. n. 155 del 2006 stabilisce che “le imprese private con finalità lucrative e le amministrazioni pubbliche” non possono esercitare attività di direzione e detenere il controllo di un’impresa sociale.
Dalla ricostruzione normativa sopra svolta emerge, in primo luogo, che sia le imprese sociali che le ONLUS devono operare senza fini di lucro.
In particolare, il carattere non lucrativo delle due tipologie di organizzazioni è garantito da previsioni di contenuto analogo recate dalle rispettive discipline che prevedono entrambe: a) il divieto di distribuzione, anche in forma indiretta, di utili e avanzi di gestione; b) l’obbligo di impiegare gli utili e gli avanzi di gestione nello svolgimento dell’attività statutaria; c) l’obbligo di devoluzione del patrimonio, in caso di cessazione dell’attività, a finalità di utilità sociale (cfr. articoli 3 e 13, comma 3 del D.Lgs. n. 155 del 2006 e art. 10, comma 1, lettere d), e) e f), del D.Lgs. n. 460 del 1997).

Si rileva, in secondo luogo, che le imprese sociali, al pari delle ONLUS, sono caratterizzate da una comune connotazione solidaristica che si esplica nello svolgimento di attività socialmente rilevanti.
Tale comune connotazione si ravvisa sia nella circostanza che le imprese sociali devono operare in determinati settori di particolare rilevanza sociale, in gran parte coincidenti con quelli delle ONLUS, sia nella circostanza che, qualora le imprese sociali intendano svolgere la loro attività in settori diversi da quelli previsti dal citato art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 155 del 2006, le stesse devono operare al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati o disabili.

Il carattere non lucrativo dell’impresa sociale, unitamente all’obbligo, per la stessa, di svolgere l’attività in particolari settori di rilevanza sociale o al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati o disabili, inducono a ritenere ammissibile, da parte di una ONLUS, la detenzione di partecipazioni in una organizzazione che abbia assunto la qualifica di impresa sociale.
Tale partecipazione, infatti, non altera la natura solidaristica della ONLUS partecipante e non comporta l’elusione del divieto di distribuzione di utili proprio delle ONLUS atteso che, anche per l’impresa sociale, opera il vincolo della non lucratività.
Tale conclusione è avvalorata, peraltro, dal citato art. 4, comma 3, del D. Lgs. n. 155 del 2006 che, nel vietare la partecipazione in un’impresa sociale di imprese private con finalità lucrative e di amministrazioni pubbliche, sembra riservare tale partecipazione a soggetti privati non aventi finalità lucrative.
Si precisa, peraltro, che il D. Lgs. n. 155 del 2006 non prevede alcun tipo di agevolazione fiscale per le imprese sociali e, pertanto, le stesse sono assoggettate a imposizione secondo i criteri ordinari che disciplinano le società e gli enti
commerciali.

Le Direzioni regionali vigileranno affinché le istruzioni fornite e i principi enunciati con la presente circolare vengano puntualmente osservati dagli uffici.

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