Cass. civile, sez. I del 1995 numero 1540 (11/02/1995)


L'art. 5 della l. 19 aprile 1925 n. 475, secondo cui "nei procedimenti relativi ai reati previsti dalla legge, qualora il fatto sia accertato, deve essere dichiarato nella sentenza di esso anche se, per qualsiasi motivo, non si debba procedere o non possa essere pronunciata condanna" deve interpretarsi nel senso che quando risulta una causa di estinzione del reato, ma già esistono prove che rendono evidente che il fatto sussiste, il giudice, pur non pronunciando condanna, dichiara in sentenza l'esistenza del fatto medesimo provvedendo ad eliminarne gli effetti civilistici ed amministrativi. Pertanto, qualora il giudice penale ritenga di non poter procedere nel giudizio avente ad oggetto il reato di cui agli art. 1 e 3 della citata legge per sopravvenuta amnistia e contemporaneamente, di non potere applicare il ricordato art. 5 della stessa legge, attesoche "la situazione (in esso prevista) non è offerta dalle risultanze processuali", una tale dichiarazione deve intendersi nel senso che sulla interpretazione del reato sussiste ancora incertezza, non essendo state svolte le indagini possibili per accertarlo.Il principio secondo cui affinché sorga l'obbligazione del risarcimento del danno occorre che esso abbia arrecato un "danno ingiusto" va inteso nel senso che, mentre per tutti i fatti dannosi non costituenti reato l'ingiustizia del danno è da intendersi (oltreché nell'accezione di danno prodotto "non iure") anche "contra jus" (vale a dire come fatto che incida su una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto), per i danni prodotti da reato, invece, l'ingiustizia è in "re ipsa" e non ha, quindi, bisogno di essere riconnessa alla violazione di un diritto soggettivo. Tali danni, quindi, vanno "in ogni caso" risarciti, anche ove siano collegati soltanto al pregiudizio di interessi di mero fatto.

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