Cass. civile, sez. III del 1999 numero 5880 (14/06/1999)


Poiché presupposto per l'applicazione della norma dell'art. 2049 c.c. è l'esistenza di un rapporto di preposizione fra il soggetto responsabile e quello che commette l'illecito, la cessazione di tale rapporto - come ad esempio del rapporto di lavoro dipendente - ne esclude l'applicabilità ai fatti illeciti commessi dal preposto successivamente ad essa e, pertanto, in relazione ad essi non si può ipotizzare una responsabilità del padrone o committente ai sensi della suddetta norma.Pur non sussistendo un obbligo generale ed assoluto del datore di lavoro di dare informazione - alla clientela ed in genere ai terzi - della cessazione dei singoli rapporti di lavoro con i propri dipendenti, tuttavia tale obbligo deve reputarsi imposto dal generale precetto del neminem laedere, previsto e sanzionato dall'art. 2043 c.c., tutte le volte che i terzi, in conseguenza delle particolari modalità di svolgimento del rapporto di lavoro prima della sua cessazione (come ad esempio, se esso abbia avuto corso non solo all'interno degli uffici del datore di lavoro, ma anche all'esterno, ed in particolare nel luogo di lavoro o di abitazione del cliente), possano ragionevolmente essere indotti a fare affidamento sulla sua persistenza. (Sulla base di tale principio, con riferimento al danno sofferto da un cliente di un istituto bancario, a seguito dell'appropriazione di somme da lui affidate ad un dipendente, che, prima della cessazione del rapporto di lavoro, era preposto a raccogliere denaro a domicilio, munito degli stampati occorrenti, e, dopo detta cessazione aveva continuato a svolgere illecitamente quell'attività, nell'inerzia dell'istituto nell'avvisare che il rapporto era cessato, la S.C. ha nella specie ritenuto che correttamente il giudice di merito avesse affermato una responsabilità dell'istituto ex art. 2043 c.c. per avere omesso di far cessare l'affidamento del cliente).

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