122 - Aumento di capitale in presenza di perdite


Massima

La presenza di perdite superiori al terzo del capitale, anche tali da ridurre il capitale ad un importo inferiore al minimo legale previsto per le s.p.a. e le s.r.l., non impedisce l'assunzione di una deliberazione di aumento del capitale che sia in grado di ridurre le perdite ad un ammontare inferiore al terzo del capitale e di ricondurre il capitale stesso, se del caso, a un ammontare superiore al minimo legale.

E' dunque legittimo l'aumento di capitale:

(i) in caso di perdite incidenti sul capitale per non più di un terzo;

(ii) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di "opportuni provvedimenti" ex artt. 2446, comma 1, e 2482-bis, comma 1, c.c.;

(iii) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in qualsiasi momento antecedente l'assemblea di approvazione del bilancio dell'esercizio successivo rispetto a quello in cui le perdite sono state rilevate;

(iv) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di assemblea di approvazione del bilancio dell'esercizio successivo rispetto a quello in cui le perdite sono state rilevate, a condizione che si tratti di un aumento di capitale da sottoscrivere tempestivamente in misura idonea a ricondurre le perdite entro il terzo;

(v) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di assemblea convocata ex artt. 2447 e 2482-ter c.c., a condizione che si tratti di un aumento di capitale da sottoscrivere tempestivamente in misura idonea a ricondurre le perdite entro il terzo.

In ogni caso l'aumento di capitale non esime dall'osservanza degli obblighi posti dagli artt. 2446, comma 1, e 2482-bis, commi 1, 2 e 3, c.c., in presenza dei quali la situazione patrimoniale rilevante le perdite - se non già pubblicizzata - deve essere allegata al verbale, o comunque con lo stesso depositata nel registro delle imprese.

Motivazione

La massima prende in esame il problema della legittimità della deliberazione di aumento del capitale sociale a pagamento, in presenza di perdite. Sebbene si giunga ad affermare, a determinate condizioni, l'ammissibilità di tale operazione in qualsiasi ipotesi di perdite, il tema richiede di essere declinato in tre diverse fattispecie, a seconda dell'ammontare delle perdite e della loro incidenza sul capitale sociale. Più in particolare, occorre distinguere a seconda che: (1) le perdite siano inferiori al terzo del capitale sociale; (2) le perdite siano superiori al terzo del capitale sociale, ma non siano tali da ingenerare l'obbligo di riduzione del capitale sociale ai sensi degli artt. 2446, comma 2, e 2447 c.c. (per le s.p.a.) e degli artt. 2482-bis, comma 4, e 2482-ter c.c. (per le s.r.l.); (3) le perdite siano superiori al terzo del capitale sociale e comportino altresì l'obbligo di riduzione del capitale sociale ai sensi delle norme ora citate.

1. Perdite inferiori al terzo del capitale. - La presenza di perdite incidenti sul capitale per non più di un terzo non impedisce la legittima assunzione di una delibera di aumento di capitale: il sistema mostra di ritenere fisiologico il disallineamento del capitale reale rispetto al capitale nominale, nei limiti di una riduzione del primo entro il terzo del secondo. Pertanto, è pacifica l'ammissibilità dell'aumento di capitale deliberato in pendenza di tali perdite, con l'effetto di ridurne l'incidenza sul capitale, senza che sia a tal fine necessaria alcuna preventiva copertura delle perdite esistenti e senza nemmeno che vi sia la necessità di appurare previamente, attraverso una idonea situazione patrimoniale, l'esatto ammontare delle perdite.

La circostanza che l'ordinamento ritenga fisiologica la situazione di perdite inferiori al terzo del capitale è chiaramente desumibile sia dalla mancanza di alcuna conseguenza da essa derivante - di guisa che la società può permanere in tale situazione sino al termine della sua esistenza, senza che si renda applicabile alcuna "contromisura" del diritto societario, salva la non distribuibilità di eventuali utili di esercizio sino a concorrenza delle perdite - sia dalla insussistenza di alcun obbligo di "monitoraggio" e informazione da parte degli amministratori nei confronti dei soci e dei terzi, diverso e ulteriore rispetto a quanto avviene ordinariamente con la redazione del bilancio e delle altre rendicontazioni contabili eventualmente obbligatorie.

Su tali basi, le società di capitali possono legittimamente assumere qualsiasi deliberazione di aumento a pagamento del capitale sociale, pur in presenza di perdite inferiori a un terzo, in qualsiasi momento (anche dopo più di un esercizio dal momento in cui esse sono state rilevate) e di qualsiasi importo che sia deciso dall'assemblea. L'effetto dell'esecuzione dell'aumento, ovviamente, sarà di incrementare il capitale sociale e il patrimonio netto, lasciando intatte le perdite, quale posta negativa all'interno del patrimonio netto.

Il fatto che in questo modo "si allontani" il momento in cui la società, qualora si verificassero ulteriori perdite, si venga a trovare nella situazione di cui agli artt. 2446 e 2482-bis c.c., con le conseguenze che da essi derivano, non sembra affatto motivo sufficiente per ritenere illegittimo un aumento di capitale in siffatte condizioni. A ben vedere, sul piano informativo i soci e i terzi sono adeguatamente tutelati sia dalle risultanze del bilancio d'esercizio, dal quale emerge annualmente con chiarezza la sussistenza di perdite inferiori al terzo, sia dall'indicazione del capitale "esistente" negli atti e nella corrispondenza della società, ai sensi dell'art. 2250, comma 2, c.c. (sebbene quest'ultimo precetto sia sovente dimenticato nella prassi). Sul piano sostanziale, inoltre, se è vero che si allontana il momento in cui possono rendersi applicabili gli obblighi di cui agli artt. 2446 e 2482-bis c.c., è altrettanto vero - e ben più significativo - che ciò avviene in dipendenza di un reale miglioramento del patrimonio sociale, grazie all'aumento di capitale, analogamente a quanto avverrebbe in forza di un risultato positivo di gestione, e non in virtù di un presunto "illusionismo" contabile volto a nascondere le perdite.

Né del resto sembra possibile ritenere che l'argomento contrario poc'anzi ricordato imponga a tutte le società di capitali, ogni qual volta intendano deliberare un aumento di capitale, la necessità di redigere una situazione patrimoniale infrannuale che consenta di escludere la presenza, in quel momento, di perdite di bilancio, anche minime, in modo da consentire la riduzione del capitale sociale prima di deliberarne l'aumento. Solo la presenza di perdite superiori al terzo del capitale sociale, infatti, comporta un immediato obbligo di rendicontazione contabile "straordinaria", anche durante l'esercizio sociale, ai sensi e per gli effetti degli artt. 2446 e 2447 c.c., per le s.p.a., e degli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c., per le s.r.l.. Ed è proprio per non dar luogo alla elusione degli obblighi derivanti da tali norme che, in sede di ogni deliberazione di aumento di capitale a pagamento (e quindi anche quando le perdite sono inferiori al terzo), è opportuna l'attestazione degli amministratori circa l'insussistenza di perdite superiori a un terzo del capitale sociale. L'eventuale infondatezza di tale attestazione non inciderebbe sulla legittimità della deliberazione assunta dall'assemblea, stante quanto sostenuto nei successivi paragrafi, ma sarebbe semmai suscettibile di comportare personale responsabilità di coloro i quali l'abbiano effettuata, in assemblea o precedentemente, oppure non l'abbiano contestata, pur avendone per legge l'obbligo di vigilanza e controllo.

2. Perdite superiori al terzo del capitale, senza obbligo di riduzione. - In caso di perdite incidente sul capitale per oltre un terzo, gli artt. 2446 e 2482-bis obbligano gli amministratori a convocare l'assemblea senza indugio "per gli opportuni provvedimenti", sottoponendo alla stessa una "relazione sulla situazione patrimoniale della società" (che, con le osservazioni dell'organo di controllo, rimane depositata presso la sede sociale negli otto giorni precedenti) e dando conto in assemblea degli eventuali "fatti di rilievo" successivi alla stesura della relazione.

E' da ritenersi corretta l'opinione secondo la quale tra gli "opportuni provvedimenti" che possono essere adottati dall'assemblea convocata in sede di prima rilevazione delle perdite superiori al terzo vada annoverato anche l'aumento di capitale a pagamento. E ciò sia che le perdite, calcolate sul nuovo capitale, rimangano superiori al terzo, potendo poi rientrare nella soglia per effetto dei risultati della gestione successiva, sia che, al contrario, il capitale venga aumentato in misura tale che le perdite non risultino più eccedere il terzo del capitale quale risultante dalla sottoscrizione dell'aumento.

A favore di questa conclusione depongono vari argomenti.

In primo luogo, la legge non tipizza "gli opportuni provvedimenti", lasciando all'assemblea ogni iniziativa sulla scelta di "quali" provvedimenti adottare. Nel novero delle decisioni di competenza assembleare, che possono essere assunte a fronte di una situazione di "allarme" quale la presenza di perdite superiori al terzo, è pertanto suscettibile di essere annoverato anche l'aumento a pagamento del capitale sociale, che per sua natura è volto proprio al rafforzamento patrimoniale della società.

In secondo luogo, l'ordinamento giuridico, oltre a non specificare "quali" possano essere i provvedimenti da adottare a fronte della sussistenza di perdite superiori al terzo, non impone neppure, nell'immediato, l'assunzione di alcuna decisione, lasciando quindi all'assemblea libera scelta anche sul "se" adottare un opportuno provvedimento. Infatti, solo in occasione dell'assemblea che approva il bilancio dell'esercizio successivo a quello in cui sono state rilevate le perdite superiori a un terzo (il che può significare sino a quasi due anni dopo l'assemblea convocata ex artt. 2446 o 2482-bis c.c.), se le perdite non sono diminuite sotto il terzo, diviene attuale la "reazione" dell'ordinamento, che prevede la riduzione del capitale sociale. Pertanto, se è vero che la legge consente il permanere di una situazione di perdite superiori al terzo del capitale per tutto il periodo dal momento in cui le perdite sono state rilevate sino al termine dell'esercizio successivo, non vi sono ragioni per impedire, all'inizio di tale periodo, un rafforzamento patrimoniale della società mediante un aumento di capitale sociale di qualsiasi importo.

In terzo luogo, la legge non pone espressamente alcun onere di preventiva riduzione del capitale per un importo pari alle perdite eventualmente sussistenti, come condizione di validità o efficacia di un aumento del capitale che fosse deliberato in presenza di perdite, anche superiori al terzo del capitale. Ciò può essere considerato addirittura scontato per l'eventualità di perdite inferiori al terzo - stante la loro tendenziale irrilevanza, come si è avuto modo di rilevare nel precedente paragrafo - ma vale allo stesso modo per l'ipotesi di perdite superiori al terzo, oggetto di specifica disciplina sia nella s.p.a. che nella s.r.l.. A ben vedere, infatti, non solo la legge non dispone in tal senso nelle disposizioni dettate in tema di riduzione per perdite (ed in particolare nei citati artt. 2446, 2447, 2482-bis e 2482-ter c.c.), bensì omette di farlo anche nelle norme che pongono le "condizioni" per l'operazione di aumento di capitale (con specifico riferimento agli artt. 2438 e seguenti c.c. e all'art. 2481 c.c.).

In quarto luogo, va precisato che questa soluzione non favorisce, come certa parte della dottrina ipotizza, l'occultamento delle perdite, poiché gli organi competenti non sono esentati dal dover rispettare né l'obbligo di esatta rilevazione delle perdite attraverso idonea situazione patrimoniale, né l'obbligo di menzionare eventuali fatti di rilievo idonei ad incidere sulle stesse: piena e tempestiva trasparenza al riguardo è assicurata per tutti i terzi dalla pubblicità nel registro delle imprese della delibera di aumento del capitale, dal cui verbale e dalla cui documentazione a supporto (in questa doverosamente inclusa la situazione patrimoniale ove non già pubblicizzata) dovrà emergere in tutta chiarezza quali siano le circostanze nelle quali è intervenuta la decisione di aumentare il capitale.

Neppure può avere rilevanza l'ulteriore argomento, affine a quello testé confutato, consistente nel rilievo che in questo modo "si allontana" il momento in cui la società, in assenza di risultati gestionali positivi, si vedrebbe obbligata a ridurre il capitale sociale. Come si è già detto nel paragrafo precedente, infatti, una simile "dilazione" nel tempo non lede alcun interesse protetto: né sul piano informativo, in quanto i soci e i terzi sono adeguatamente informati sia dalle risultanze del bilancio d'esercizio, sia dall'indicazione del capitale "esistente" negli atti e nella corrispondenza della società; né sul piano sostanziale, in quanto l'allontanamento del sorgere dell'obbligo di riduzione del capitale non avviene in tal caso in virtù di un presunto "illusionismo" contabile volto a nascondere le perdite, bensì in dipendenza di un reale miglioramento del patrimonio sociale, grazie all'aumento di capitale, analogamente a quanto avverrebbe in forza di un risultato positivo di gestione nel periodo decorrente tra il rilevamento delle perdite e la chiusura dell'esercizio successivo.

Si consideri, del resto, che un aumento di capitale deliberato quale "opportuno provvedimento" dall'assemblea convocata ai sensi degli artt. 2446, comma 1, e 2482-bis, comma 1, c.c., costituisce una misura di rafforzamento patrimoniale più trasparente rispetto ad altre ipotesi analoghe, quali i versamenti a fondo perduto o le rinunzie a finanziamenti soci. Siffatte tecniche di intervento - le quali comportano anch'esse un "allontanamento" dell'obbligo di riduzione del capitale, pur incidendo direttamente sulle perdite, a differenza di quanto avviene in caso di aumento di capitale - sono infatti conoscibili dai creditori e dai terzi solo dopo la chiusura dell'esercizio, mediante la lettura del bilancio. Qualora l'assemblea procedesse all'aumento di capitale, invece, i terzi verrebbero subito a conoscenza sia della situazione di perdite superiore al terzo, sia della misura di rafforzamento patrimoniale adottata dalla società, posto che restano comunque fermi tutti gli obblighi di informazione sanciti dagli artt. 2446 e 2482-bis c.c., come ribadito nell'ultimo comma della Massima in oggetto.

Sul piano funzionale, infine, può essere utile sottolineare come l'interpretazione qui sostenuta, oltre ad essere sorretta dagli argomenti sino ad ora esposti, sia altresì volta a soddisfare interessi meritevoli di tutela. Ci si potrebbe infatti chiedere a che fine possa valer la pena affermare la liceità di un aumento di capitale senza preventiva riduzione delle perdite, là dove la società potrebbe comunque deliberare, nell'ambito della stessa assemblea, senza apparenti "costi" aggiuntivi, il medesimo aumento di capitale procedendo alla preventiva copertura delle perdite mediante riduzione del capitale. Ebbene, la possibilità per la società di scegliere l'una o l'altra modalità di eseguire la medesima operazione - in una situazione in cui del resto la legge non impone alcuna riduzione, né alcuna ricapitalizzazione - rappresenta di per sé un interesse meritevole di tutela. Ciò in quanto l'attuazione dell'aumento di capitale senza la preventiva riduzione consente evidentemente di mantenere inalterate le partecipazioni preesistenti, circostanza che a sua volta potrebbe essere coerente sia con gli accordi di investimento dei soci (magari in via non proporzionale), sia con la disponibilità di terzi ad effettuare nuovi conferimenti.

Un simile interesse, a ben vedere, assume particolare rilevanza ogni qual volta il patrimonio sociale abbia un valore non interamente rilevato nelle rappresentazioni contabili di bilancio, tale da non giustificare il sacrificio della compagine sociale attuale, che subirebbe la riduzione delle proprie partecipazioni a causa della riduzione del capitale sociale. Si pensi ad esempio al caso di una società di recente costituzione, che intraprenda un'iniziativa imprenditoriale che necessiti di alcuni esercizi sociali prima di essere adeguatamente avviata. Può darsi il caso di accordi di investimento, progressivi nel tempo, in forza dei quali coloro che effettuano i conferimenti successivi alla costituzione della società non siano gli stessi soci originari oppure, ove siano in tutto o in parte gli stessi soci, questi non conferiscano secondo le proporzioni originarie. In tali situazioni, la possibilità di deliberare i successivi aumenti senza procedere alla preventiva riduzione del capitale a copertura delle perdite - quand'anche superiori al terzo - consente di preservare il valore della partecipazione dei soci originari, in coerenza con il valore prospettico della società, quale riconosciuto anche da coloro che effettuano i nuovi conferimenti senza pretendere la diluizione dei vecchi soci. Il tutto, come dimostrato in precedenza, senza alcuna lesione sia degli interessi della società (che vede comunque rafforzato il proprio patrimonio in un momento in cui la legge nulla impone), sia degli interessi dei creditori (che si giovano anch'essi del rafforzamento patrimoniale del loro debitore), sia degli interessi dei terzi in generale (che hanno adeguata e tempestiva informazione tanto della sussistenza delle perdite, quanto degli opportuni provvedimenti assunti in via facoltativa dalla società).

Quanto sopra esposto si presta ad essere ripetuto nell'ipotesi in cui l'aumento di capitale in presenza di perdite superiori al terzo venga deliberato non già dall'assemblea convocata per gli "opportuni provvedimenti", ma da una posteriore assemblea. Ciò perché niente esclude che i soci maturino solo dopo la prima assemblea, anche alla luce di nuove opportunità inizialmente non disponibili, decisioni che bene avrebbero potuto essere adottate già nella prima assemblea; né le disposizioni normative si oppongono - e non ve ne sarebbe ragione - a che i "provvedimenti opportuni" inizialmente adottabili possano essere presi in un momento successivo nell'arco temporale concesso in assenza di obblighi di intervento sul capitale. Le stesse argomentazioni e le stesse ragioni che sorreggono l'affermazione della legittimità di un aumento di capitale, di qualsivoglia importo, nel momento in cui vengono rilevate per la prima volta le perdite superiori a un terzo del capitale, valgono pertanto per l'intero periodo che intercorre sino all'insorgere dell'obbligo di riduzione di cui agli artt. 2446, comma 2, e 2482-bis, comma 4, c.c.

3. - Perdite superiori al terzo del capitale, con obbligo di riduzione. - La presenza di perdite superiori al terzo del capitale sociale, a differenza di quanto avviene nelle situazioni esaminate nel precedente paragrafo, comporta l'obbligo di riduzione del capitale sociale in due circostanze: qualora "entro l'esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo" (artt. 2446, comma 2, e 2482-bis, comma 4, c.c.) ed inoltre qualora le perdite, oltre ad essere superiori a un terzo del capitale sociale, siano tali da ridurlo "al disotto del minimo" legale (artt. 2447 e 2482-ter c.c.).

3.1. - In entrambe le circostanze, la Massima in epigrafe afferma la legittimità di una deliberazione di aumento, senza preventiva riduzione del capitale, a condizione che l'aumento sia di misura tale da ricondurre le perdite entro il terzo del capitale. Ciò significa che l'aumento deve essere tale, una volta eseguito, da far sì che l'importo del capitale sociale sottoscritto, post aumento, sia almeno il triplo delle perdite iscritte in bilancio (al netto delle eventuali riserve), che permangono del medesimo importo. Il che comporta - sempre e necessariamente, per inconfutabile calcolo matematico - che in seguito all'aumento il patrimonio netto sia di segno positivo e che il capitale sociale post aumento, pur ridotto dalle perdite tuttora iscritte in bilancio, sia in ogni caso superiore al minimo legale. Ciò avviene, si noti, a prescindere da quale sia l'ammontare delle perdite e del patrimonio netto, ed in particolare anche nelle ipotesi di perdite superiori al capitale sociale, tali da rendere il patrimonio netto inferiore a zero.

Alcuni esempi possono rendere facilmente l'idea. Ipotesi (1): capitale 120.000, riserve zero, perdite 100.000: l'aumento deve essere almeno di 180.000, così da portare il capitale ad almeno 300.000; post aumento, la società avrà capitale 300.000, riserve zero, perdite 100.000 e quindi un patrimonio netto positivo pari a 200.000. - Ipotesi (2): capitale 120.000, riserve 100.000, perdite 300.000: l'aumento deve essere almeno di 480.000, così da portare il capitale ad almeno 600.000; post aumento, la società avrà capitale 600.000, riserve zero, perdite 200.000 e quindi un patrimonio netto positivo pari a 400.000. - Ipotesi (3): capitale 120.000, riserve zero, perdite 300.000: l'aumento deve essere almeno di 780.000, così da portare il capitale ad almeno 900.000; post aumento, la società avrà capitale 900.000, riserve zero, perdite 300.000 e quindi un patrimonio netto positivo pari a 600.000.

Alla condizione ora illustrata si deve naturalmente aggiungere quella richiesta in ogni ipotesi di deliberazione di aumento di capitale in situazioni di perdite di cui agli artt. 2447 e 2482-ter c.c., anche qualora si proceda previamente alla riduzione del capitale sociale a copertura delle perdite. Ciò significa che la società, nel deliberare l'aumento di capitale, non gode della medesima libertà di cui dispone in ogni altra ipotesi di aumento - ivi compresi i casi di perdite superiori al terzo ma non tali da imporre la riduzione del capitale - bensì deve fissare un termine finale di sottoscrizione che non ecceda il tempo necessario per il realizzarsi delle condizioni, di natura sostanziale e procedimentale, che l'esecuzione dell'aumento richiede. Si tratta in altre parole del medesimo principio già affermato nella Massima n. 38 in data 19 novembre 2004 (Azzeramento e ricostituzione del capitale sociale in mancanza di contestuale esecuzione dell'aumento), a sua volta tratto dall'orientamento giurisprudenziale che non ritiene necessaria, in caso di azzeramento e ricostituzione del capitale sociale, l'immediata sottoscrizione dell'aumento di capitale sociale che riporta il medesimo sopra il minimo legale.

Alla necessità di un congruo termine finale di sottoscrizione, inoltre, come già indicato nelle motivazioni della citata Massima n. 38, si accompagna l'opportunità di prevedere la inscindibilità dell'aumento di capitale (almeno sino all'importo necessario per ricondurre le perdite al disotto del terzo del capitale), nonché di assumere, contestualmente all'aumento, le deliberazioni che diverrebbero necessarie nel caso in cui esso non sia tempestivamente sottoscritto. Nelle ipotesi di perdite superiori al terzo, pertanto, anche al fine di poter considerare non operante l'obbligo di istanza giudiziale di riduzione del capitale sociale, previsto dagli artt. 2446, comma 2, e 2482-bis, comma 4, c.c., va considerata l'opportunità della contestuale deliberazione di riduzione del capitale, per il caso in cui l'esecuzione dell'aumento non si completi entro il termine stabilito. Nelle ipotesi di riduzione al disotto del minimo legale, invece, si può valutare di deliberare - subordinatamente alla mancata esecuzione dell'aumento - in merito alla liquidazione della società, eventualmente provvedendo anche a nominare i liquidatori.

3.2. - Ciò detto, occorre motivare l'interpretazione in base alla quale si reputano sufficienti tali condizioni per rendere legittima la deliberazione di aumento anche senza procedere alla preventiva riduzione del capitale a copertura delle perdite. In entrambe le fattispecie qui considerate, infatti, la lettera della legge non sembrerebbe lasciar spazio a soluzioni diverse dalla riduzione del capitale sociale: nella prima ipotesi, l'art. 2446, comma 2, c.c. dispone che, "se entro l'esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l'assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate" (il precetto si trova riprodotto quasi testualmente nell'art. 2482-bis, comma 4, c.c., per le s.r.l.); nella seconda ipotesi l'art. 2447 c.c. sancisce che "se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dall'articolo 2327, gli amministratori o il consiglio di gestione e, in caso di loro inerzia, il consiglio di sorveglianza devono senza indugio convocare l'assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società" (come analogamente avviene, per le s.r.l., nell'art. 2482-ter c.c.).

A questo fine, in considerazione del fatto che entrambe le fattispecie sono contraddistinte da un analogo precetto normativo, si può procedere all'esame congiunto di esse. Le argomentazioni a sostegno della Massima, infatti, riguardano entrambe le situazioni, salve alcune particolarità di cui si darà conto nel corso dell'esposizione.

Occorre anzitutto osservare che il tenore letterale delle norme poc'anzi citate, seppur volto alla riduzione del capitale sociale, non pone invero un obbligo inderogabile, in via assoluta e a prescindere da ogni altra circostanza. A ben vedere, infatti, esse trovano applicazione soltanto sul presupposto che le perdite accertate in bilancio in misura superiore al terzo del capitale siano ancora tali nel momento in cui l'assemblea è chiamata a deliberare, mentre potrebbe darsi che le perdite si siano nel frattempo aggravate o ridotte entro il terzo o addirittura azzerate per effetto dell'attività svolta o per qualsiasi altro fatto a ciò idoneo sopravvenuto dopo la chiusura dell'esercizio o dopo la data di riferimento della situazione patrimoniale predisposta dall'organo amministrativo.

Nel caso in cui una più aggiornata situazione patrimoniale accertasse l'azzeramento di quelle perdite, nessuna riduzione del capitale per perdite potrebbe essere validamente deliberata. Analogamente, nel caso in cui un'aggiornata situazione patrimoniale dovesse accertare la riduzione delle perdite entro il terzo del capitale, non potrebbe essere validamente deliberata, se non rispettando le prescrizioni dell'art. 2445 c.c., una riduzione del capitale per l'intero ammontare delle perdite risultanti dal bilancio dell' "esercizio successivo", come le disposizioni citate, se prese alla lettera, parrebbero pretendere.

Siffatte considerazioni, pur non essendo certo risolutive per dimostrare la legittimità dell'aumento di capitale senza preventiva riduzione, dimostrano che, almeno in queste ultime ipotesi, si impone in ogni caso un'interpretazione non letterale della norma, restando da verificare se sia preferibile ritenere che il capitale debba necessariamente essere ridotto per la parte di perdite ancora esistente o ritenere invece che, essendo le perdite ancora esistenti non superiori al terzo del capitale, sia venuto meno il presupposto essenziale della riduzione obbligatoria. Questa seconda soluzione intuitivamente merita consenso, perché non si spiegherebbe una disparità di trattamento tra le società che si trovano stabilmente con perdite "entro il terzo" o che, dopo aver sforato la soglia, rientrano nella stessa entro la chiusura dell'esercizio successivo e le società che, dopo aver sforato la soglia, rientrano nella stessa dopo la chiusura dell'esercizio successivo ma comunque prima che divenga attuale l'obbligo di riduzione oppure prima che quell'obbligo venga eseguito con l'adozione della delibera di riduzione. In altri termini, le disposizioni sopra menzionate vanno lette alla luce di un presupposto in esse implicitamente contenuto: che le perdite superiori al terzo restino tali sino al momento in cui l'assemblea delibera la riduzione del capitale a copertura delle perdite; ove le perdite siano state per qualunque ragione ridotte entro il terzo, l'obbligo di riduzione non nasce o viene meno.

Anche le norme dettate per la fattispecie in un certo senso più "grave" (artt. 2447 e 2482-ter c.c.) sono formulate in modo tale da non lasciare, in apparenza, vie alternative. Ma si tratta, per l'appunto, di una restrizione solo apparente. Per un verso, come si evince dagli artt. 2484 e 2487 c.c., l'assemblea - oltre che procedere alla trasformazione della società - potrebbe validamente deliberare in ordine allo scioglimento anticipato e alla nomina dei liquidatori, senza operare sul capitale. Per altro verso, è ormai consolidato l'orientamento interpretativo, anche in giurisprudenza, secondo il quale la società può deliberare operazioni di fusione o scissione con altre società partecipanti, al cui esito la o le società risultanti non si trovino in situazioni di perdite superiori al terzo. Si pensi al caso di una s.r.l. con capitale 10.000 e perdite 30.000, che venga incorporata da una s.p.a. con capitale 1.000.000, senza riserve e senza perdite. Anche in tal caso, pur essendosi realizzata la fattispecie di cui all'art. 2482-ter c.c., si ritiene ammissibile l'operazione, senza procedere alla copertura delle perdite, né nella società incorporanda, né in quella incorporante, per il semplice motivo che, post fusione, la società risultante non verserà nelle situazioni di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c..

Ne risulta pertanto confermata la rilevanza non decisiva, in senso assoluto, del tenore letterale delle norme in questione: le disposizioni che dal punto di vista letterale parrebbero senz'altro imporre un obbligo di riduzione del capitale non possono allora essere interpretate in senso strettamente letterale.

Si apre così la possibilità di esaminare gli argomenti di carattere sistematico e funzionale, per verificare se e a quali condizioni possa ritenersi legittima la deliberazione di aumento del capitale sociale, senza preventiva riduzione del medesimo, anche in queste fattispecie.

3.3. - Sotto il profilo sistematico, rilevato che la riduzione del capitale non costituisce l'unica e indefettibile iniziativa da assumere in conseguenza della presenza di perdite superiori al terzo, si può notare che l'ordinamento pone in realtà alcuni punti fermi, i cui precetti sono così riassumibili: (i) le società di capitali possono mantenere iscritte in bilancio, a tempo indefinito, perdite inferiori al terzo del capitale (vale a dire quando il patrimonio netto è almeno pari ai due terzi del capitale); (ii) le società di capitali non possono invece mantenere iscritte in bilancio perdite superiori al terzo del capitale (ossia non possono avere un patrimonio netto inferiori ai due terzi del capitale) per più di un esercizio successivo a quello durante il quale esse vengono rilevate e per il periodo fisiologicamente necessario ad approvare il bilancio dell'esercizio successivo; (iii) le società di capitali non possono conservare il tipo sociale prescelto, qualora le perdite iscritte in bilancio siano superiori a un terzo e siano tali da ridurre il capitale al disotto del minimo legale richiesto per il tipo sociale (ossia quando il patrimonio netto è inferiore sia ai due terzi del capitale, sia al capitale minimo per legge).

Dall'insieme delle norme che dettano tali precetti emerge quindi con certezza l'obiettivo dell'ordinamento di mantenere un adeguato rapporto proporzionale tra capitale e perdite, oltre al rispetto del minimo legale, non già quello della inammissibilità, anche sine die, di perdite iscritte in bilancio. La circostanza che la legge, quando viene superata la soglia massima del rapporto tra perdite e capitale (pari a un terzo), imponga espressamente la riduzione del capitale, può essere spiegata osservando che si tratta del rimedio tipico per il ripristino della situazione fisiologica, e forse anche l'unico che la legge può imporre (in alternativa allo scioglimento). Non sarebbe infatti plausibile - o meglio, non sarebbe coerente con la regola della responsabilità limitata vigente in linea di principio nelle società di capitali - un obbligo di ricapitalizzazione, a carico dei soci, in caso di "rottura" della soglia fisiologica del rapporto tra perdite e capitale.

In altre parole, sembra potersi affermare che la disciplina in materia di perdite, a prescindere dalla descrizione letterale delle procedure da seguire, si basa sulla chiara contrapposizione tra le due situazioni fattuali prese in considerazione dalle norme: le perdite inferiori al terzo del capitale e quelle superiori. La prima è una situazione fisiologica che non merita alcuna cura obbligatoria, mentre la seconda è una situazione patologica che deve essere curata mediante la riconduzione della società allo stato che il legislatore considera come fisiologico. In una siffatta ottica, e condivise dunque le ragioni che suggeriscono il superamento della lettera delle disposizioni qui esaminate, nulla dovrebbe impedire che la cura delle perdite patologiche avvenga - anche nelle ipotesi degli artt. 2446, comma 2, 2447, 2482-bis, comma 4, e 2482-ter, c.c. - attraverso una delibera di aumento oneroso del capitale in misura sufficiente allo scopo, e dunque attraverso una delibera che riconduca le perdite entro il terzo del nuovo capitale. E ciò al pari di quanto avviene, come sopra ricordato, mediante la fusione della società con perdite superiori al terzo con una società senza perdite o con perdite inferiori al terzo, che rimangano tali anche dopo la fusione.

3.4. - Dal punto di vista delle finalità perseguite dalla legge, del resto, si deve riconoscere una sostanziale equivalenza funzionale tra l'intervento sul capitale sociale secondo le modalità espressamente previste dalla legge - riduzione e successivo aumento - e l'operazione di aumento senza preventiva riduzione, alle condizioni precisate nella Massima. Ciò vale sia nella fattispecie contemplata dagli artt. 2446 e 2482-bis, comma 4, c.c., sia in quella disciplinata dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c.

Può essere utile, a tal riguardo, prendere in esame alcune esemplificazioni numeriche, cominciando dalla situazione di perdite superiori a un terzo, consolidatesi nell'esercizio successivo, ma non tali da ridurre il capitale al disotto del limite legale (2446 e 2482-bis c.c.). Si considerino le seguenti soluzioni tra loro alternative.

(a) La prima di esse consiste nella mera attuazione dell'obbligo di legge. La società, con capitale 300.000 e perdite 150.000, riduce il capitale da 300.000 a 150.000.

(b) La seconda contempla invece un aumento, previa riduzione del capitale. La società, con capitale 300.000 e perdite 150.000, riduce il capitale da 300.000 a 150.000 e quindi lo aumenta di 150.000, riportandolo a 300.000.

(c) La terza realizza invece quanto sostenuto nella Massima, con un aumento di capitale senza preventiva riduzione. La società, con capitale 300.000 e perdite 150.000, aumenta il capitale di 150.000, portandolo da 300.000 a 450.000.

E' vero che nell'ipotesi sub (c) rimangono iscritte in bilancio le perdite di 150.000, ma è pur vero che rispetto alla prima ipotesi, l'unica imposta dalla legge, la situazione patrimoniale della società è certamente migliore: il patrimonio netto è addirittura il doppio; qualora la gestione successiva producesse utili, questi andranno a ridurre le perdite residue; qualora invece si producessero nuove perdite, la compagine sociale sarebbe immediatamente informata attraverso la procedura di cui agli artt. 2446 e 2482-bis c.c., potendosi allora assumere ulteriori provvedimenti, vuoi di copertura delle perdite, vuoi di altri aumenti di capitale.

E' altresì vero che, rispetto alla soluzione sub (b), la terza ipotesi conduce ad un medesimo patrimonio netto, lasciando però intatte le perdite, ma è pur vero che la sussistenza di tali perdite, ricondotte entro la soglia "fisiologica", non lede alcun interesse protetto: non quello dei soci originari, che invero beneficiano di questa modalità di ricapitalizzazione, come dimostrato nel precedente § 2.2, posto che mantengono invariate le proprie partecipazioni; non quello dei sottoscrittori dell'aumento, che decidono consapevolmente, sulla base delle rappresentazioni contabili imposte dalle norme in questione, di pagare (implicitamente) una sorta di sovrapprezzo, rispetto alle partecipazioni già esistenti, in ragione di eventuali valori non espressi dal bilancio; non quello dei creditori, i quali, oltre a disporre del medesimo patrimonio su cui soddisfarsi, possono contare sul fatto che i primi utili eventualmente generati dalla gestione non potranno essere distribuiti, bensì saranno obbligatoriamente destinati a copertura delle perdite residue; né infine quello dei terzi in generale, che possono in entrambi i casi contare su una compiuta informazione derivante dalla situazione patrimoniale di riferimento e dall'iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese.

L'esemplificazione delle operazioni di ricapitalizzazione senza preventiva riduzione del capitale può ora continuare con riferimento alla fattispecie delle perdite che riducano il capitale al disotto del minimo legale (artt. 2447 e 2482-ter c.c.). In tali circostanze, si possono prendere in esame le due seguenti soluzioni alternative.

(a) Aumento previa riduzione del capitale: la società, con capitale 120.000 e perdite 200.000, riduce il capitale da 120.000 a zero e quindi lo aumenta di 120.000, riportandolo quindi a 120.000, con contestuale copertura delle perdite residue, pari a 80.000 (vuoi con versamenti spontanei, vuoi con utilizzo del sovrapprezzo richiesto per la sottoscrizione delle azioni di compendio dell'aumento). Post aumento, la società avrà capitale 120.000 e patrimonio netto 120.000, in assenza di perdite iscritte in bilancio.

(b) Aumento senza preventiva riduzione del capitale: la società, con capitale 120.000 e perdite 200.000, lo aumenta di 480.000, portandolo quindi a 600.000, mantenendo le perdite di 200.000. Post aumento, la società avrà capitale 600.000 e patrimonio netto 400.000, stante le perdite residue di 200.000.

E' pertanto vero, anche nel confronto tra tali soluzioni, che la seconda comporta il permanere in essere delle perdite preesistenti, invariate nel loro ammontare assoluto, seppur diminuite nella loro incidenza proporzionale sul capitale. Ma è altrettanto vero che siffatta modalità alternativa di ricapitalizzazione - oltre a ripristinare la situazione fisiologica delle perdite entro il limite di un terzo del capitale sociale - comporta necessariamente una maggior patrimonializzazione della società: è infatti evidente che l'impegno dei soci o dei nuovi sottoscrittori, al fine di riportare il capitale sociale ad una misura almeno pari al triplo delle perdite, è sempre superiore a quello che sarebbe sufficiente qualora si procedesse alla preventiva riduzione del capitale.

Dal punto di vista dell'immediato versamento di denaro (o dell'immediato utilizzo di crediti vantati verso la società, in quanto idonei a tal fine), la soluzione dell'aumento senza preventiva riduzione non comporta un minor impegno verso la società in tutti i casi in cui il 25% dell'aumento è di per sé superiore a quanto avrebbero dovuto versare i soci nella soluzione alternativa. Così avviene nella soluzione sub (b) nell'esempio di cui sopra, là dove il versamento immediato deve essere di almeno 120.000 (pari al 25% dell'aumento di 480.000), rispetto al versamento immediato necessario secondo la soluzione dell'esempio sub (a), nel quale il versamento immediato ammonta a 110.000 (pari a 80.000 per la copertura delle perdite "sotto zero" oltre al 25% dell'aumento di 120.000). Qualora invece le perdite "sotto zero" fossero di ammontare superiore all'importo del versamento del 25% dell'aumento, saremmo comunque di fronte, oltre al medesimo obbligo di versamento immediato previsto per tutte le ipotesi di aumento a pagamento in denaro, alla assunzione di un obbligo giuridicamente vincolante e azionabile in qualsiasi momento dalla società (o dai suoi creditori in via surrogatoria) di conferire un ammontare di denaro superiore a quello che sarebbe sufficiente qualora si procedesse alla preventiva riduzione del capitale. In circostanze simili, in ogni caso, la società potrebbe, con ciò eliminando ogni possibile sospetto di intento elusivo, prevedere in sede di deliberazione di aumento l'obbligo di versare, a liberazione delle azioni o quote di nuova emissione, un importo superiore al 25% dell'aumento, che sia almeno pari all'ammontare delle perdite "sotto zero".

3.5. - Resta ora da giustificare, una volta dimostrata la insussistenza di alcuna lesione di interessi protetti dall'ordinamento, se vi siano e quali siano gli interessi meritevoli di tutela che possono essere soddisfatti dalla "modalità alternativa" di ricapitalizzazione consistente nell'aumento di capitale senza preventiva riduzione.

Al riguardo ci si potrebbe forse limitare ad affermare che il semplice fatto di disporre di una pluralità di modalità tecniche per conseguire i medesimi effetti e per realizzare gli stessi obiettivi perseguiti dal sistema giuridico, senza che ciò leda alcun interesse protetto, è di per sé un vantaggio che può validamente sostenere l'interpretazione volta a legittimare la modalità alternativa, pur non espressamente prevista dalla legge. Ma sembra che ci si possa spingere oltre, giacché la tesi fatta propria dalla Massima consente invero di soddisfare interessi ulteriori, non parimenti conseguibili con l'altra modalità di ricapitalizzazione. In particolare, essa amplia e potenzia le chances di reperire nuove risorse utili per la prosecuzione (quando non per la sopravvivenza) della società, specie là dove gli attuali soci non possano o non vogliano partecipare all'operazione di ricapitalizzazione.

La legittima assunzione di una delibera di aumento di capitale pur in presenza di perdite rilevanti, infatti, consente il mantenimento delle partecipazioni dei "vecchi" soci (i quali saranno pertanto più facilmente indotti a votare a favore della ricapitalizzazione), anche in mancanza di nuovi conferimenti da parte loro: e ciò senza rendere necessari meccanismi di assegnazione non proporzionale delle partecipazioni di nuova emissione (ex artt. 2346, comma 4, e 2468, comma 2, c.c.), non unanimemente ritenuti ammissibili in caso di totale mancanza di conferimenti da parte di uno o più soci, e comunque non sempre agevoli sul piano attuativo.

Non è un caso, del resto, che a questi temi ci si rivolga dopo alcuni anni in cui le operazioni di ristrutturazione del debito e di ricapitalizzazione hanno impegnato gli operatori economici e giuridici molto più che in passato, quale diretta conseguenza della recente situazione di crisi. Proprio la necessità di coinvolgere nelle operazioni di ricapitalizzazione soggetti in tutto o in parte diversi dai "vecchi" soci, infatti, ha evidenziato l'importanza di poter liberamente negoziare le modalità di esecuzione degli aumenti di capitale volti alla raccolta di nuovi capitali, pur in presenza di perdite. Non sempre, infatti, l'obbligo di effettuare la preventiva riduzione del capitale a copertura delle perdite (o addirittura il suo azzeramento) consente di mettere d'accordo la vecchia compagine sociale con i nuovi investitori, soprattutto qualora vi siano valori aziendali ulteriori rispetto a quelli rappresentati dal bilancio. I vecchi soci non sono in tal caso disposti a votare l'annullamento delle loro partecipazioni, se non a fronte di macchinose "redistribuzioni" del capitale sociale risultante dall'operazione.

In altre parole, vi sono alcune circostanze nelle quali è interesse comune, sia dell'originaria compagine sociale sia dei nuovi soci, lasciare intatto il capitale sociale esistente, seppur intaccato o addirittura del tutto eroso dalle perdite, e procedere direttamente all'aumento di capitale mediante il quale vengono effettuati i nuovi conferimenti che consentono la prosecuzione dell'attività sociale. In questo modo, da un lato, i vecchi soci vedono riconosciuto il valore "latente" ancora presente in società e, dall'altro, coloro che sono disposti ad investire nuove ricchezze (o a convertire i propri crediti) ottengono comunque la partecipazione alla società, nella misura "negoziata" coi vecchi soci.

Né si può dire che siffatta modalità alternativa di ricapitalizzazione sia di per sé elusiva di principi e regole inderogabili poste dall'ordinamento. Essa, come si è cercato di dimostrare nelle pagine precedenti, consegue i medesimi obiettivi rinvenibili nel sistema e non comporta la lesione di alcun interesse protetto. Il che, ovviamente, non esclude in via assoluta - al pari di quanto può avvenire con qualsiasi istituto giuridico, in sé lecito - che se ne possa fare uso distorto, in modo non coerente con le finalità perseguite dalla legge, o abusivo, magari a danno delle minoranze o di una parte della compagine sociale. Si può peraltro osservare che, soprattutto nelle situazioni di perdite tali da rendere il patrimonio netto negativo, sono proprio le "ordinarie" modalità di intervento sul capitale a rendersi suscettibili di un uso improprio a danno delle minoranze, specie se accompagnate da "politiche" di bilancio volte a far emergere perdite significative, non derivanti dalla gestione ordinaria (costi superiori ai ricavi), bensì da svalutazioni più o meno giustificate.

Al contrario, la possibilità di disporre di una tecnica di intervento sul capitale, che non impone necessariamente la riduzione del capitale a copertura delle perdite (o che comunque possa ad essa essere affiancata), rende più difficili gli abusi, sia in un senso che nell'altro, dovendosi in ogni caso giustificare la congruenza dell'operazione con i valori del patrimonio sociale e con l'interesse della società e dell'intera compagine sociale. Sul piano degli interessi generali, inoltre, è ben più improbabile che la tecnica di ricapitalizzazione qui sostenuta si presti ad essere utilizzata per elusioni o "aggiramenti" delle norme, posto che essa impone sempre e in ogni caso un impegno economico superiore rispetto sia all'aumento previa riduzione, sia alla tecnica dei versamenti a fondo perduto in misura necessaria e sufficiente per "rabboccare" il patrimonio netto affinché non diminuisca al disotto dei due terzi del capitale sociale.

Nota bibliografica

1. - La dottrina che ha avuto l'occasione di esaminare il tema dell'aumento di capitale in presenza di perdite dà atto del fatto, che, secondo un orientamento diffuso e per alcuni prevalente, non sarebbe consentito procedere all'aumento di capitale in presenza di perdite che impongano una riduzione obbligatoria del capitale. In questo senso si vedano ad esempio N. Abriani, La riduzione del capitale sociale nelle s.p.a. e nelle s.r.l. Profili applicativi, in Rivista di diritto dell'impresa, 2009, 183 ss., p. 195, il quale, riferendosi alle ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 2446, all'art. 2447 e 2482-ter, afferma che detta opinione contraria è «tuttora prevalente»; R. Benassi, Commento all'art. 2438 c.c., in Commentario Breve al diritto delle società , a cura di A. Maffei Alberti, Padova, 2007, p. 887 s., p. 888, per il quale «[p]revale l'opinione che sia inoltre vietato eseguire l'aumento di capitale in presenza di perdite che impongano una riduzione obbligatoria del capitale sociale», mentre sarebbe «[m]inoritario l'orientamento che ritiene che l'aumento non possa essere deliberato in presenza di perdite anche inferiori al terzo del capitale»; F. Platania, Le modifiche del capitale, Milano, Giuffrè, 1998, p. 23, il quale sostiene che «[l]a seconda condizione, cui è subordinato l'aumento del capitale, è costituita per giurisprudenza e dottrina prevalente, dall'inesistenza di perdite di capitale superiore al terzo»; G.A.M. Trimarchi, Le riduzioni del capitale sociale, Assago, Milano, Ipsoa, 2010, p. 251, il quale, facendo riferimento alla delibera di aumento del capitale sociale in presenza di perdite superiori al terzo, afferma che «[l]'orientamento più tradizionale ed una cospicua parte della giurisprudenza più risalente» ritenevano illegittima questa operazione; Commissione studi civilistici, La riduzione del capitale per perdite, Studio CNN n. 3658, approvato l'11 dicembre 2001, in cui si sostiene che, nell'ipotesi in cui il capitale sia diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, secondo l'orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza «sarebbe illegittima la delibera di aumento del capitale sociale»; in modo simile è orientato anche lo studio della Commissione studi d'impresa, Società di capitali: aumento a pagamento del capitale in presenza di perdite inferiori al terzo, Studio n. 14-2008/I, nel quale si precisa che l'orientamento che considera illegittima «la delibera di aumento del capitale sociale, quando esso risulta diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite» sarebbe prevalente «soprattutto in giurisprudenza».

2.1. - La verifica dell'ammissibilità di un'operazione di aumento di capitale in presenza di perdite viene effettuata dalla dottrina prendendo in considerazione l'entità di detta perdita, nonché i diversi contesti in cui essa si manifesta. Più in particolare si distingue tra le seguenti ipotesi: (a) perdita inferiore a un terzo del capitale, (b) perdita superiore a un terzo del capitale sociale rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 2446, comma 1, c.c. (art. 2482-bis, comma 1, c.c. per le s.r.l.), (c) perdita superiore a un terzo del capitale sociale, che nell'esercizio successivo non sia diminuita a meno di un terzo e che quindi possa rientrare nel campo di applicazione dell'art. 2446, comma 2, c.c. (art. 2482-bis, comma 4, c.c. per le s.r.l.), (d) perdita superiore a un terzo del capitale sociale che comporta riduzione dello stesso al disotto del minimo legale art. 2447 c.c. (art. 2482-ter c.c. per le s.r.l.).

2.2. - Incominciando dalla prima delle ipotesi sopra indicate, vale a dire quella in cui l'aumento di capitale viene deliberato in presenza di perdite inferiori a un terzo del capitale sociale, vi è un certo consenso tra i contributi consultati in merito alla legittimità dell'operazione. Più precisamente, oltre a tutti gli autori che si dichiarano favorevoli all'aumento di capitale come "provvedimento opportuno" in ipotesi di perdite superiori al terzo (v. infra), cfr. V. Salafia, Riduzione per perdite inferiori al terzo, nota a Trib. Verona 22 novembre 1988, in Società , 1989, p. 289: «se si deve riconoscere che in presenza di perdite inferiori al terzo del capitale, la società non è tenuta ad assumere alcun provvedimento correttivo del capitale, ne deriva come conseguenza che la società può legittimamente aumentare il proprio capitale»; in modo simile G.A.M. Trimarchi, cit., p. 251, il quale sostiene che la tesi contraria «appare formalistica se non addirittura irragionevole»; in particolare questo Autore sottolinea il fatto che «la perdita inferiore al terzo è addirittura considerata dal legislatore irrilevante», di conseguenza egli ritiene che un'operazione di questo genere debba essere ritenuta pienamente legittima. In modo simile è orientato anche lo studio della Commissione studi civilistici, cit., nel quale si afferma che «un'attenta lettura del 2446 c.c. dimostra che il legislatore ha indicato una soglia di sicurezza oltre la quale le perdite incidono sotto vari aspetti sulla vita della società: nessun ostacolo ad ammettere l'aumento di capitale quando la perdita è sotto la soglia del terzo del capitale», anzi detta operazione «secondo alcuni . . . sarebbe addirittura opportuna, in quanto varrebbe a: ridurre l'entità della perdita; dotare la società di nuovi mezzi finanziari per una successiva e rapida ripresa; rafforzare la garanzia degli attuali creditori», e si fa notare poi che «la reale situazione patrimoniale è comunque manifestata dal bilancio annuale, reso pubblico ex 2435 c.c. e dal rispetto del 2250, comma 2, c.c.». Recentemente questa impostazione è stata ribadita anche nello studio della Commissione studi d'impresa, cit.

Appare, invece, meno possibilista C.A. Busi, Riduzioni di capitale nelle s.p.a. e s.r.l., Milano, Egea, 2010, p. 328, il quale afferma che «nel caso di perdita del capitale inferiore al terzo non si ritiene legittimo un aumento del capitale sociale senza previa riduzione, perlomeno quando le perdite risultino evidenziate chiaramente in un documento contabile ufficiale». Tuttavia questo stesso Autore (C.A. Busi, s.p.a. - s.r.l, operazioni sul capitale, Milano, Egea, 2004, p. 157) in precedenza aveva avuto l'occasione di precisare che comunque sarebbe «condivisibile l'orientamento dottrinale secondo cui le perdite potrebbero essere coperte mediante aumento del capitale con soprapprezzo pari alle perdite», anche se in questo caso «il sottoscrittore dovrà essere reso edotto che il sopraprezzo deve essere destinato a copertura di perdite pregresse ed è altresì evidente che l'aumento del capitale dovrà essere inscindibile». Questa stessa impostazione, in base alla quale si riconosce la legittimità di un aumento di capitale deliberato in presenza di perdite, a patto che venga previsto un soprapprezzo tale da coprire dette perdite, è stato poi recentemente ribadito in C.A. Busi, Riduzioni, cit., p. 301, in cui viene anche confermata la necessità che l'aumento abbia natura inscindibile e che il sottoscrittore sia informato del fatto che il soprapprezzo verrà utilizzato per coprire le perdite. Anche F. Platania, Commento sub art. 2338, in La riforma del diritto societario, a cura di G. Lo Cascio, Milano, Giuffrè, 2007, 2° ed., p. 199 ss., p. 209, si dimostra particolarmente scettico in merito alla possibilità che un aumento di capitale possa essere realizzato qualora si manifestino perdite inferiori a un terzo del capitale sociale: a detta dell'Autore, «l'esigenza dei terzi, ed anche quelle dei soci, possono essere tutelate solo se non si consente l'aumento di capitale, qualunque sia l'entità delle perdite, posto che l'interesse dei terzi all'effettiva sussistenza del capitale e quello dei soci alla percezione degli utili verrebbero frustrati anche quando l'aumento fosse disposto in presenza di perdite di importo inferiore al terzo del capitale sociale», così giungendo alla conclusione per cui «ogni aumento di capitale sia precluso se vi siano perdite di qualsiasi entità». Posizione, quest'ultima, che appare differente da quella assunta dallo stesso Autore prima della riforma del diritto societario in F. Platania, Le modifiche, cit., p. 26, in cui, in relazione all'ipotesi di un aumento in presenza di perdite non superiori al terzo del capitale, si sostiene che «[s]embra pertanto conforme alla ratio dell'art. 2438 c.c. permettere l'operazione di aumento di capitale soltanto quando non si verifichino ipotesi che possano determinare (per volontà della legge o dei soci) una riduzione del capitale onde evitare ogni "bolla" potenzialmente idonea ad ingenerare pericolosi equivoci sull'apparenza patrimoniale della società», e quindi si conclude che «[l]a posizione della dottrina e della giurisprudenza appare condivisibile in toto, trovando nell'art. 2446 c.c. il suo fondamento normativo». Sul punto, comunque, si veda anche R. Benassi, cit., p. 888, il quale registra come «[m]inoritario l'orientamento che ritiene che l'aumento non possa essere deliberato in presenza di perdite anche inferiori al terzo del capitale».

Anche la giurisprudenza che negli anni si è pronunciata in merito alla soluzione di questo problema ha assunto impostazioni non univoche. Così, ad esempio, secondo Trib. Roma, 25 novembre 2008, unico precedente reperibile dopo la riforma del 2003, «la deliberazione di aumento del capitale sociale in presenza di perdite può reputarsi legittima nelle sole ipotesi di riduzione facoltativa del capitale». È interessante rilevare che in questa stessa decisione si sottolinea che sul punto non mancano voci discordi. Un orientamento decisamente più restrittivo, invece, è stato in passato assunto da Trib. Verona, 22 novembre 1988, in Riv. not., 1990, II, p. 1106; Società , 1989, p. 288, con nota di V. Salafia, cit., in cui si sostiene che «[n]on è legittima la deliberazione assembleare con cui viene aumentato il capitale di una società di capitali in presenza di perdite, prima che le stesse raggiungano il limite del terzo del capitale sociale, in quanto renderebbe inoperanti gli artt. 2446 e 2447 c.c.».

2.3. - Il tema dell'ammissibilità di un aumento di capitale, qualora ricorrano le condizioni previste all'art. 2446, comma 1, c.c. e quindi qualora le perdite siano superiori a un terzo del capitale sociale, è stata affrontata dalla dottrina in particolare sotto la prospettiva della possibilità di ricomprendere l'aumento di capitale tra gli opportuni provvedimenti che possono essere assunti dall'assemblea che deve essere convocata qualora si verifichi la situazione prevista dall'art. 2446, comma 1, c.c. In senso favorevole si veda, da ultimi, N. Abriani, cit., p. 195, per il quale «[f]ra gli «opportuni provvedimenti» che possono essere decisi per evitare la riduzione del capitale, rientra anche l'aumento del capitale, che determina l'automatico effetto di diluire la perdita, riducendone l'incidenza proporzionale sul valore del capitale nominale»; G.A.M. Trimarchi, cit., p. 251 s.; G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, Milano, Giuffrè, 2010, t. II, p. 1675, il quale sottolinea che «[t]rattandosi di ipotesi in cui non è previsto alcun obbligo di riduzione, la risposta deve essere positiva giacché - atteso quanto si è poc'anzi sostenuto circa la possibilità, in sede di opportuni provvedimenti, di coprire solo parzialmente la perdita mediante riduzione del capitale per un importo inferiore ad essa, sempre che quest'ultima risulti alla fine non superiore ad un terzo del capitale - non si vede per quale ragione lo stesso risultato non possa essere raggiunto, ipotizzata ad esempio una società con un capitale di 1.000.000 euro e una perdita di 500.000, attraverso l'aumento del capitale a 1.500.000 euro, con la conseguenza che la perdita sarà pari non più a metà del capitale ma ad un terzo del medesimo e quindi inferiore alla soglia di cui all'art. 2482-bis, comma 2°»; M. speranzin, in Commentario romano al nuovo diritto delle società diretto da F. d'Alessandro, vol. II, t. 2, Padova, 2011, sub art. 2438, p. 832. Si conferma in tal modo un orientamento dottrinale da tempo consolidatosi come prevalente: cfr. R. Barabino, Riduzione del capitale per perdite e deliberazioni d'aumento, in Giur. comm., 1974, II, p. 673 ss., p. 676 s., il quale così argomenta: «il legislatore non ha certamente escluso, a nostro avviso, la possibilità (meglio la facoltà) per l'assemblea di adottare, ai fini della eliminazione o della riduzione delle perdite, altri « opportuni provvedimenti » senza attendere il risultato dell'esercizio successivo . . . », pertanto l'assemblea potrà, tra le diverse opzioni, anche «aumentare il capitale, riportando le perdite a nuovo, in modo tale che il rapporto tra questo e le perdite sia inferiore ad un terzo»; F. Fenghi, La riduzione del capitale, Milano, Giuffrè, 1974, p. 74, per il quale la società «può certo stabilire, come abbiamo visto, di ridurre il capitale oppure di aumentarlo, oppure di ridurlo e di aumentarlo contestualmente»; G. Grippo, Modificazioni dell'atto costitutivo, recesso e variazioni del capitale sociale, in Giur. comm., 1975, I, p. 100 ss., p. 123, il quale sostiene che «appare del tutto convincente la tesi, secondo cui, per l'ampio « àmbito di discrezionalità », riconosciuto all'assemblea convocata per gli « opportuni provvedimenti », fra questi « è da includersi la riduzione del capitale ma anche al limite, un aumento dello stesso che immediatamente riporti la situazione della società in uno stato considerato normale da parte del legislatore, aumento che, senza ridurre le perdite in assoluto, le renda meno gravi, cioè inferiori a un terzo, se poste in relazione a un capitale maggiore »; U. Belviso, Le modificazioni dell'atto costitutivo nelle s.p.a., in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, XVII, Torino, 1985, 137; S. Patriarca, nota a Trib. Vicenza 28 marzo 1985, in La nuova giur. civ. comm., 1985, I, p. 666, p. 668, per il quale «se, nell'ipotesi «canonica» di riduzione facoltativa (perdita inferiori al terzo) è certo che la società, essendo legittimata ad astenersi indefinitamente da qualsiasi iniziativa, potrà, a fortiori, coprire una parte soltanto delle perdite, parimenti dovrà ritenersi del tutto lecita la deliberazione che ottenga il risultato di fare discendere la perdita al di sotto del terzo, mantenendo in tal modo - come nel primo caso - la società in una situazione di facoltatività della riduzione»; C. Montagnani, Profili attuali della riduzione del capitale sociale, in Riv. dir. civ., 1993 II, p. 1 ss., p. 39, per la quale «il « raggio » degli opportuni provvedimenti non può, evidentemente, esser parametrato a un'informazione dei creditori nemmeno dovuta; mentre l'aumento del capitale, se può apparire adeguato alle concrete esigenze dell'impresa non pregiudica né « confonde » i terzi che, dalla consultazione del bilancio presentato all'assemblea ex art. 2446 c.c. e da questa posto a base della delibera di aumento o, comunque, dal bilancio di chiusura di esercizio nel quale la perdita è stata rilevata e l'aumento deliberato, ricaveranno la precisa conoscenza della situazione»; R. Nobili - M.S. Spolidoro, Riduzione di capitale, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, Utet, 1993, p. 323, i quali affermano che se «si accoglie la tesi [sostenuta dagli Autori] . . . secondo cui in certi casi la società può coprire solo parzialmente la perdita, portando a nuovo il residuo, e se si ammette che l'esistenza di una perdita a nuovo (inferiore al terzo del capitale) non comporta una lesione dell'interesse generale, né di quelli dei creditori, né di un interesse giuridicamente protetto dei singoli soci, si deve ritenere che, alla stessa stregua, una società deve poter aumentare il proprio capitale (senza procedere alla riduzione dello stesso) a condizione che dopo l'aumento la perdita divenga inferiore al terzo del nuovo capitale».

Tra le voci minoritarie che, invece, manifestano dubbi in merito alla possibilità di ricomprendere una delibera di aumento di capitale tra gli opportuni provvedimenti di cui all'art. 2446, comma 1, c.c., si devono segnalare C.A. Busi, Riduzioni, cit., p. 328 s., il quale sostiene che «[è] evidente che qualora si ritenesse possibile un aumento senza previa riduzione (chi scrive è di parere contrario) bisognerebbe, perlomeno, e salvi i termini minimi di legge per l'esercizio del diritto di opzione/sottoscrizione, richiederne una celere sottoscrizione . . . al fine di poter classificare l'operazione come "opportuno provvedimento" conforme all'ordine del giorno dell'assemblea»; F. Platania, Commento, cit., p. 208, ove si afferma che non può «essere deliberato l'aumento di capitale in presenza di perdite (di qualsiasi entità)» (cf. supra § 2.2.); Id., Le modifiche, cit., p. 24, in cui si sottolinea anche come «la riduzione del capitale o il versamento di somme a copertura delle perdite costituisca la sola possibilità per la società e che pertanto non sia possibile procedere ad un aumento del capitale al fine di ridurre la entità dell'incidenza delle perdite rispetto al capitale (anche quando la riduzione del capitale non sia obbligatoria . . . )»; F. Di Sabato, Diritto delle società , Torino, Utet, 2005, 2° ed., p. 457, il quale sostiene che «[n]on è possibile invece aumentare il capitale, senza averlo prima ridotto in misura corrispondente alla perdita: le esigenze di informazione sottese alla disciplina degli artt. 2446 e 2447 non consentono di mascherare la situazione», questo anche perché «un aumento, senza previa riduzione, potrebbe ridurre il deficit ma non eliminarlo, mentre il legislatore vuole che la perdita, una volta che si sia manifestata in quella misura, sia tutta intera eliminata»: tale impostazione, del resto, corrisponde a quanto sostenuto dallo stesso Autore prima della riforma del diritto societario (cf. F. Di Sabato, Manuale delle società , Torino, Utet, 1995, 5° ed., p. 690). Infine, in senso contrario si pronunciano anche gli Orientamenti del comitato triveneto dei notai in materia di atti societari, settembre 2010, alle massime H.G.19 e I.G.30, che, con identico tenore letterale, così recitano: «[i]n presenza di perdite superiori al terzo del capitale sociale deve ritenersi non consentita una deliberazione dell'assemblea dei soci di aumento del capitale sociale ove non sia accompagnata dalla copertura integrale delle perdite accertate».

Relativamente abbondante, ancorché non recente, è anche la giurisprudenza che si è pronunciata sul tema. In senso favorevole si vedano App. Bologna, 3 settembre 1971, in Vita not., 1973, p. 458, per la quale «[è] valida la deliberazione di una società per azioni la quale, nel caso di diminuzione del capitale di oltre un terzo in conseguenza di perdite, al fine di sanare parte delle perdite proceda prima all'aumento del capitale (previo effettivo e integrale versamento dell'aumento stesso) e successivamente ne attui la riduzione»; Trib. Roma, 10 settembre 1984, in Società , 1985, p. 606, in cui si conclude che «[l]e norme contenute negli artt. 2446 e 2447, c.c. le quali impongono la riduzione o l'annullamento del capitale sociale per effetto di perdite, non impediscono l'assunzione di una deliberazione assembleare di aumento del capitale per risanare in radice la situazione economica della società, essendo sufficiente, al fine di evitare che la deliberazione di aumento sia strumentalmente diretta all'occultamento delle perdite, che queste siano poste in evidenza nel passivo del bilancio»; poco chiara risulta la più vicina Trib. Roma, 25 novembre 2008, cit., ove si accomuna la fattispecie in cui si verifica una perdita inferiore al terzo a quella prevista all'art. 2446, comma 1, c.c. e per un verso si sostiene che «la deliberazione di aumento del capitale sociale in presenza di perdite può reputarsi legittima nelle sole ipotesi di riduzione facoltativa del capitale» (cf. supra § 2.2.), mentre per altro verso si afferma che la delibera di aumento risulta essere «uno degli "opportuni provvedimenti" assumibili» anche perché «contrariamente reputando, si creerebbe una regola difforme da quella degli artt. 2446-2447 c.c., allargandone il campo di applicazione», casi nei quali «l'aumento del capitale avrà non il fine di acquisire nuovi mezzi di investimento alla società, ma quello di fronteggiare passività».

Tra le pronunce che, invece, hanno ritenuto quest'operazione non ammissibile si ricorda App. Milano, 13 febbraio 1974, in Dir. fall., 1974, II, p. 505; Giur. it., 1974, I, 2, p. 895; Giur. comm., 1974, II, p. 673, per la quale «[u]na volta che sia risultato che il capitale di una società per azioni sia diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, l'assemblea non può deliberare di aumentarlo, senza averlo previamente ridotto»; Trib. Udine, 1º febbraio 1993, in Società , 1993, p. 1075, ove si afferma che «[i]n presenza di perdite che fanno diminuire il capitale sociale di oltre un terzo, l'assemblea non può deliberare un aumento di capitale se prima non provvede alla obbligatoria riduzione per perdite»; sul punto si confrontino anche Trib. Vicenza, 28 marzo 1985, in Dir. fall., 1985, II, p. 808, in cui si sostiene che «[i]n caso di riduzione del capitale sociale di un terzo e quindi del verificarsi dell'ipotesi prevista dall'art. 2446 c.c., la società non può deliberare di ridurre a zero il proprio capitale e procedere poi all'aumento del medesimo, riportando alla consistenza originaria, senza prima avere provveduto al ripianamento delle perdite dovendosi infatti ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate», e Cass., 13 gennaio 1987, n. 133, in Giur. it., 1987, I, p. 1764, in cui si espone il principio per cui «[l]a delibera di riduzione (o di azzeramento) del capitale sociale a seguito della perdita di oltre un terzo del medesimo, costituisce per la società un atto necessitato e dovuto a tutela dell'interesse dei terzi ed in particolare dei creditori sociali».

2.4. - In relazione alla terza ipotesi di aumento di capitale in presenza di perdite indicata in precedenza, vale a dire quella in cui vi sia una perdita superiore a un terzo del capitale sociale che nell'esercizio successivo non risulti essere stata diminuita a meno di un terzo, ovvero quella in cui dovrebbe trovare applicazione l'art. 2446, comma 2, c.c., si deve subito rilevare che soltanto pochi Autori e poche pronunce giurisprudenziali hanno avuto l'occasione di trattare la questione in modo specifico.

In senso favorevole si pronuncia N. Abriani, cit., p. 195, il quale ritiene che non si possa escludere la possibilità di procedere ad un aumento di capitale «nelle più gravi fattispecie di cui al secondo comma dell'art. 2446 e all'art. 2447 (e 2482-ter)», e ciò perché, se «è ormai indiscussa, anche in queste ultime ipotesi, la legittimità di un apporto fuori capitale diretto a prevenire la perdita, non sembrano rinvenibili ragioni di ordine assiologico tali da precludere ai soci di intervenire operando nuovi conferimenti, con la maggior trasparenza e tutela dei creditori connessi ad una modificazione statutaria destinata ad aumentare il vincolo contabile prospettico sul patrimonio sociale».

Per una diversa soluzione propende, invece, G.A.M. Trimarchi, cit., p. 255 s., il quale, così argomenta: «la non necessità della riduzione deriva dalla consapevolezza - risultante dalle evidenze del bilancio dell'anno successivo a quello in cui la perdita significativa venne rilevata - del "miglioramento" della situazione patrimoniale della società. Ove, invece, in caso di persistenza della perdita si consentisse un parziale assorbimento della stessa si consentirebbe il protrarsi di una situazione che la legge sembra voglia che si esaurisca con il decorso dell'anno di grazia».Nello stesso senso si veda già R. Barabino, cit., p. 676, per il quale «[l]a riduzione del capitale in proporzione alle perdite è vista come necessaria e improrogabile ove la società, scelta la soluzione di attendere i risultati dell'esercizio successivo, non sia stata, poi, in grado di eliminare o ridurre le perdite». Orientato per la medesima soluzione sembra essere anche S. Patriarca, cit., p. 667 s. Sul punto si confrontino anche Commissione studi d'impresa, cit., la quale rileva che è necessario distinguere tra la fattispecie di cui all'art. 2446, comma 1, c.c. e quella prevista al secondo comma di questo stesso articolo, e R. Benassi, cit., p. 888, secondo il quale «[p]revale l'opinione che sia inoltre vietato eseguire l'aumento di capitale in presenza di perdite che impongano una riduzione obbligatoria del capitale sociale . . . perlomeno quando la riduzione non sia procrastinabile ., per evitare la violazione della disciplina della riduzione del capitale».

In giurisprudenza si veda Trib. Roma, 25 novembre 2008, cit., che esclude la legittimità dell'aumento in quanto «il contrario principio deriva dalla lettera degli artt. 2446, 2° comma, e 2447, c.c., essendo la riduzione il solo provvedimento sul capitale consentito dalla legge». Ugualmente in senso contrario si veda App. Milano, 9 aprile 1973, in Riv. dott. comm., 1973, p. 909, secondo la quale, infatti, «[q]uando le perdite abbiano diminuito di oltre un terzo il capitale sociale e non siano state riassorbite, almeno nella misura necessaria a riportare il capitale ad oltre due terzi dell'ammontare originario, nell'esercizio successivo, deve provvedersi alla riduzione del capitale in proporzione delle perdite accertate», sicché «[l]a formalizzazione della riduzione del capitale non può essere evitata sostituendola con l'operazione opposta, cioè con un aumento di capitale non preceduto dalla riduzione prescritta, effettuato allo scopo di far apparire che il capitale non sia diminuito al di sotto dei due terzi in conseguenza delle perdite». In modo simile v. già Trib. Udine, 1º febbraio 1993, cit., (cf. supra § 2.3.). Più possibilista appare essere, invece, Trib. Roma, 10 settembre 1984, in Società , 1985, p. 606, decisione in cui, come è anche già stato rilevato in precedenza (cf. supra § 2.3.), si è dato atto che «[l]e norme contenute negli artt. 2446 e 2447, c.c. le quali impongono la riduzione o l'annullamento del capitale sociale per effetto di perdite, non impediscono l'assunzione di una deliberazione assembleare di aumento del capitale per risanare in radice la situazione economica della società, essendo sufficiente, al fine di evitare che la deliberazione di aumento sia strumentalmente diretta all'occultamento delle perdite, che queste siano poste in evidenza nel passivo del bilancio».

2.5. - Anche per quanto riguarda il caso in cui vi sia una perdita superiore a un terzo del capitale sociale che comporta una riduzione dello stesso al disotto del minimo legale (art. 2482-ter, comma 1, c.c. per le s.r.l.), soltanto pochi Autori e decisioni hanno esaminato la questione in modo specifico.

Vi è chi, come R. Nobili - M.S. Spolidoro, op. cit., 390, non si dichiara contrario pur manifestando il "dubbio se la s.p.a. possa, in alternativa, non ridurre il capitale, ma limitarsi ad aumentarlo, rinviando a nuovo l'intera perdita", sempre che "la società aument[i] il capitale ad un importo tale, che il nuovo patrimonio netto sia superiore al minimo legale e la perdita riportata a nuovo non ecceda il terzo del capitale aumentato". Decisamente favorevole ad un aumento di capitale anche quando si siano verificate queste particolari circostanze si mostra N. Abriani, cit., p. 195, il quale basa detta soluzione sugli stessi argomenti che porterebbero a ritenere ammissibile un aumento di capitale nella fattispecie disciplinata dall'art. 2446, comma 2, c.c. (cf. supra § 2.4.). Contrario è invece F. Di Sabato, Diritto, cit., p. 457, che conferma quanto già sostenuto prima della riforma del diritto societario [sul punto si veda F. Di Sabato, Manuale, cit., p. 690, (cf. supra § 2.3.)]. Si noti che secondo G. Giannelli, Le operazioni sul capitale, in Trattato delle società a responsabilità limitata diretto da Ibba e Marasà, VI, Padova, 2009, p. 335 s., "i motivi tradizionalmente addotti per sostenere la soluzione negativa non convincono però appieno. Certamente, l'obbligo della preventiva riduzione del capitale non si potrebbe giustificare per un presunto interesse di tutela dei creditori, che sarebbero comunque salvaguardati dall'apporto di nuovo capitale e, pur persistendo le perdite riportate a nuovo, dal divieto di distribuire utili.Anche l'esigenza informativa sottesa alla disciplina in esame sarebbe assicurata."; per l'autore "l'unica motivazione sostenibile a conforto della soluzione più rigorosa (oltre beninteso al dato testuale offerto dall'art. 2482-ter)" consiste in ciò, che in questa situazione "ogni incremento del capitale si deve tradurre non solo in un apporto di nuovi mezzi e nel ripristino del rapporto tra perdite e capitale considerato accettabile (conseguenza che si rinviene sia nell'aumento senza riduzione, sia nei versamenti a fondo perduto non imputabili a capitale) ma in un corrispondente aumento del patrimonio netto, il che è possibile solo se prima le perdite sono state azzerate.".

Per quanto riguarda la giurisprudenza, la questione è stata esaminata da Trib. Roma, 10 settembre 1984, cit., (cf. supra § 2.3. e § 2.4.), che sembra orientato in senso favorevole all'operazione. Tuttavia, oltre a Trib. Roma, 25 novembre 2008, cit., la quale argomenta in modo analogo a quanto illustrato in precedenza in merito alla possibilità di deliberare un aumento di capitale quando la società si trova nella fattispecie disciplinata dall'art. 2446, comma 2, c.c. (cf. supra § 2.4.), si veda anche la precedente decisione di Trib. Roma, 14 luglio 1998, in Società , 1999, p. 338, nella quale si conclude che «[o]ve le perdite, superiori al terzo del capitale, riducano il capitale medesimo al di sotto del minimo legale, non è consentito coprire le perdite con versamenti effettuati dai soci in assemblea in proporzione alle rispettive quote, bensì occorre procedere alla riduzione e reintegra del capitale»: in nota, peraltro G.E. Colombo, Pretesa inammissibilità di copertura di perdite senza "operare sul capitale", in Società , 1999, 339 ss., rileva come tale precedente si ponga in contrasto con un consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale (ivi riferimenti in nt. 3) secondo cui - citando da G. Tantini, I "versamenti in conto capitale", Milano, 1990, 109 ss. - "il versamento spontaneo a copertura perdite rimuove il presupposto stesso della riduzione obbligatoria, e così fa venir meno la necessità stessa di ricorrere al procedimento ex art. 2447"; nell'affermare che la meno tempestiva informazione che i terzi ricevono circa l'entità della perdita attraverso il deposito del bilancio rispetto alla immediata pubblicità della delibera che opera sul capitale non può "giudicarsi lesiv[a] di un interesse dei terzi protetto dalla legge", l'illustre Autore ribadisce "la fondatezza dell'opinione, dominante in dottrina e sostanzialmente pacifica in giurisprudenza, della liceità di una copertura delle perdite "senza operare sul capitale" anche nell'ipotesi prevista dall'art. 2447 c.c." e così conclude: "Se il Tribunale, anziché ipotizzare che l'art. 2447 detti l'unico possibile provvedimento per la copertura della perdita del capitale, fosse partito dall'idea dell'ammissibilità di qualsivoglia provvedimento che realizzi lo stesso risultato senza ledere interessi protetti da norme imperative, forse non sarebbe giunto ai risultati qui criticati".

(nota bibliografica a cura di Corrado Malberti)

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