Risarcibilità del danno conseguente alla perdita della vita, trasmissibilità del credito risarcitorio “iure hereditatis”. Consistenza della categoria del "danno non patrimoniale"(Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 1361 del 23 gennaio 2014)

Il risarcimento del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis, atteso che la non patrimonialità è attributo proprio del bene protetto (la vita) e non già del diritto al ristoro della lesione ad esso arrecata.
La liquidazione del danno da perdita della vita deve compiersi in applicazione dell'art. 1226 c.c., essendo rimessa alla discrezionalità del giudice di merito l'individuazione di criteri che consentano di pervenire ad un equo ristoro, evitando però sia l'adozione di soluzioni di carattere meramente soggettivo, sia la determinazione di un ammontare eguale per tutti, occorrendo, per contro, un'adeguata personalizzazione in considerazione, in particolare, dell'età, dello stato di salute e delle speranze di vita futura della vittima, nonché dell'attività da essa svolta e delle sue condizioni personali e familiari.
La categoria generale del danno non patrimoniale - che attiene alla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da valore di scambio - presenta natura composita, articolandosi in una serie di aspetti (o voci) aventi funzione meramente descrittiva, quali il danno morale (identificabile nel patema d'animo o sofferenza interiore subìti dalla vittima dell'illecito, ovvero nella lesione arrecata alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana), quello biologico (inteso come lesione del bene salute) e quello esistenziale (costituito dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto danneggiato), dei quali - ove essi ricorrano cumulativamente - occorre tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell'integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto (o voce) venga computato due (o più) volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni.
Nel liquidare il danno morale il giudice deve dare motivatamente conto del significato ad esso attribuito, ed in particolare se lo abbia valutato solo alla stregua di "patema d'animo" (e cioè di sofferenza interiore o perturbamento psichico), vale a dire di "danno morale subiettivo", di natura meramente emotiva e interiore, ovvero anche in termini di pregiudizio arrecato alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana.

Commento

(di Daniele Minussi)
Ancora una pronunzia sul dibattuto tema del danno non patrimoniale. In che cosa esso consiste? Quali ne sono le componenti? A quali condizioni esso deve essere risarcito? Come si procede a tal riguardo, evitando duplicazioni nelle voci di pregiudizio?
Sotto il primo profilo la S.C. opera una distinzione tra: a) danno morale, b) danno biologico, c) danno esistenziale e, novità assoluta, d) danno da perdita della vita. Da questo punto di vista occorre rammentare che, secondo la fondamentale Cass. Civ., sez. Unite, n. 26972/2008, le voci distinte del danno non patrimoniale non si sostanzierebbero in autonome categorie di pregiudizio, ciascuna delle quali idonea a generare titoli risarcitori specifici. In questa direzione la pronunzia qui in commento riassume nella categoria "danno non patrimoniale" tutte le predette componenti.
La novità assoluta la distinta messa a fuoco del "danno conseguente alla perdita della vita" inteso come pregiudizio distinto dai c.d. "danni da agonia" intesi come danno biologico connesso alle sofferenze fisiche.
V'è tuttavia di più: una volta affermato il diritto al risarcimento del danno per "perdita della vita", se ne deduce l'operatività dei principi in tema di successione mortis causa. Insomma: l'erede subentra nel diritto al risarcimento del danno per perdita della vita. A parte la probabile direzione contraria rispetto all'esigenza di evitare pericolose moltiplicazioni di istanze risarcitorie, ma cosa dire sulla messa a fuoco del momento generatore del pregiudizio?
In sintesi: come poter riferire al patrimonio di un defunto un diritto che matura quando il soggetto di tale diritto non c'è più? come distinguerlo da un diritto che sorge jure proprio in capo al di lui erede? Parebbe esservi spazio per un ulteriore intervento delle Sezioni Unite.

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