Natura fittizia del trasferimento della sede sociale all’estero: revoca della dichiarazione di fallimento. (Cass. Civ., Sez. Unite, sent. n. 10925 del 26 maggio 2016)

Ai sensi dell'art. 3, paragrafo 1, del Regolamento CE 29 maggio 2000, n. 1346/2000 competenti ad aprire la procedura di insolvenza sono i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, dovendosi presumere - per le società e le persone giuridiche - che il centro degli interessi coincida, fino a prova contraria, con il luogo in cui si trova la sede statutaria, sicché quando risulti accertata una discrepanza tra sede legale e sede effettiva è l’ubicazione di quest’ultima a dover prevalere ed a costituire il criterio determinante della giurisdizione.
Incombe sui creditori istanti l’onere di provare fatti idonei a superare la presunzione di coincidenza tra sede statutaria ed effettivo centro di interessi.
Benché non gravi sulla società nei cui confronti sia presentata un’istanza di fallimento la dimostrazione che il centro effettivo dei propri interessi coincida con l’ubicazione della sua sede legale, è comunque consentito al giudice, al fine di vincere la presunzione di corrispondenza tra sede effettiva e sede legale della società stessa, di desumere argomenti di prova dal contegno delle parti nel processo.

Commento

(di Daniele Minussi)
Se il creditore non riesce a dimostrare che il trasferimento della sede all'estero è "finto", la pronunzia dichiarativa di fallimento deve essere revocata. La normativa UE (regolamento CE 1346/2000) infatti presume la coincidenza tra la sede indicata dallo statuto e quella effettiva. L'onere della prova grava non già sul "debitore", bensì su chi, come il creditore, intende dimostrare il contrario. E' sufficiente, a tale fine, dar conto dell'assenza di rapporti bancari all'estero? Secondo la S.C., la risposta è negativa. Sul tema, in senso potenzialmente divergente, si veda Cass. civile, sez. Unite 5419/2016.

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